26 Aprile, 2024

Digitalizzazione, aree marginali e nuove geografie del lavoro: oltre le (anti)retoriche

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Storicamente sono state le città, milieux innovateurs per antonomasia, a sviluppare progetti di infrastrutturazione tecnologica a servizio della governance territoriale, mobilitando la smartess come paradigma concettuale ed operativo nei e per i contesti urbani, dove convergono flussi informazionali, investimenti economici, capitale sociale e umano. Le regioni rurali e/o marginali sono state per anni escluse dalla “mitologia” della smartness, giudicate intrinsecamente refrattarie ai mutamenti repentini innescati dalle nuove tecnologie e non dotate di quell’insieme di fattori – infrastrutturali, sociali, economici – giudicati essenziali per la sua applicazione concreta.

Recentemente, però, sul piano delle politiche si è registrato un significativo slittamento semantico che mobilita il paradigma della smartness anche – e spesso con maggior enfasi – in relazione alle aree rurali e/o marginali, lasciando emergere nuove locuzioni come lo Smart Territory o la Smart Land.

Se è innegabile il ruolo di “ricucitura” delle fratture che le nuove tecnologie possono assolvere, compensando alcune lacune dovute alla marginalità, è anche vero che alla scala macro la digitalizzazione amplifica le differenze territoriali, sovrapponendo alle tradizionali dialettiche centro-periferia inediti processi di periferalizzazione che emergono da nuove dicotomie, legate ai poli antitetici dell’essere connessi o non connessi.

Il dibattito sulla presunta “fine della distanza” è stato recentemente rinfocolato dal massiccio ricorso al tele-lavoro che, nella prima fase della pandemia da Covid-19, ha ridisegnato flussi, attori e reti delle geografie del lavoro: non soltanto per le imprese si schiuderebbero nuovi orizzonti localizzativi, ma anche – ed è questa la svolta principale – per i lavoratori dell’economia della conoscenza e in tutti quei settori “teleworkable”.

Secondo i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale del Lavoro, prima dell’epidemia da Covid-19 i lavoratori che potevano svolgere le loro mansioni da casa (tele-workers ma anche artigiani, freelance etc.), rappresentavano il 7,9% della forza lavoro su scala globale, di cui solo il 2,9% impiegati. In Italia, secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, se nel 2020 i dati sono ovviamente “falsati” dal primo lockdown ( a fine 2020, più di 6 milioni contro i 570mila del 2019), a marzo 2021 gli smart workers sono 5,37 milioni, assestandosi a settembre 2021 a 4,07.

Se, dunque, una nuova declinazione del lefebvriano diritto alla città – ovvero il diritto alla città “informazionale” – riflette una necessità trasversale di riconnessione dei territori nell’ottica del superamento dei divari, ci chiediamo quali politiche di digitalizzazione su scala europea possano concretamente influire su spazi e tempi dell’abitare e ridisegnare nuove centralità.

Risale al 2010 l’Agenda Digitale della Commissione Europea, lanciata con l’obiettivo di garantire ad almeno l’85% della popolazione l’accesso alla banda ultra-larga e coronamento di un insieme di politiche e strategie che, a partire da metà anni Novanta, sono incentrate sulla valorizzazione delle nuove tecnologie come strumenti per l’incremento della produttività e la crescita del sistema Europa. L’iniziativa è contemplata fra le sette iniziative-faro contenute nella strategia Europa 2020 della Commissione Europea che, nel solco Strategia di Lisbona lanciata dal Consiglio nel 2000, mirano a incrementare la competitività e il dinamismo del sistema economico europeo nell’ottica dello sviluppo sostenibile e attraverso il perseguimento di una maggiore coesione sociale.

Non è casuale, dunque, che le politiche europee a sostegno della digitalizzazione, in particolar modo quelle più recenti, si intersechino con l’insieme di strategie finalizzate ad arginare i divari territoriali, nelle quali l’infrastrutturazione tecnologica e l’alfabetizzazione digitale dei cittadini sono mobilitate da catalizzatori di processi di innovazione. Tra le varie iniziative, nel 2017 il Parlamento europeo lancia l’azione Smart Villages con l’obiettivo di mappare pratiche ed esperienze realizzate in comunità rurali che, tramite le tecnologie digitali e di telecomunicazione, valorizzano i propri vantaggi competitivi creando nuovi reti e servizi e/o consolidando quelli già esistenti. Con il paradigma dello Smart Village si ribadisce la necessità di adottare un approccio multidimensionale di tipo territoriale e sovra-comunale; cooperativo e integrato, in cui convergano attori e interessi differenti; endogeno, che non si limiti ad applicare tout court modelli ed esperienze mutuati da altri contesti. E soprattutto viene caldeggiato un approccio che declini la smartness non tanto in termini di sola infrastrutturazione digitale ma di “intelligenza diffusa” all’interno della quale le nuove tecnologie agiscono da leve di processi di innovazione sociale fondati sul capitale umano per liberare le aree rurali dalla spirale involutiva del cosiddetto “circolo del declino”, in cui spopolamento e diminuzione dei servizi di base si alimentano a vicenda.

Potenziare, dunque, la connettività non è sufficiente se non si agisce anche sul versante del capitale umano e delle risorse socioeconomiche locali. Questo ragionamento diventa ancor più cruciale in merito alle forme di valorizzazione territoriale articolate intorno al tele-lavoro e a nuove forme di residenzialità. La retorica del “ritorno ai borghi” che ha scandito il dibattito in Italia da un lato sarebbe smentita da tendenze che identificano come mete privilegiate del tele-lavoro non tanto territori rurali disconnessi dalle reti infrastrutturali principali, quanto piccoli insediamenti ai margini delle città “superstar”, forme di residenza temporanea (come il “nomadismo digitale” e il “workation”) o “third-spaces” come gli spazi di co-working nelle grandi città. Dall’altro, è certamente necessario superare la retorica dell’“antiretorica” e attivare le connessioni digitali nelle aree più fragili, trasformando le nuove tecnologie in motori di superamento delle barriere geo-fisiche anche attraverso il lavoro da remoto. Sarebbe utopistico, tuttavia, immaginare percorsi di rigenerazione che non siano ancorati alle forme “tradizionali” dell’accessibilità – trasporti e mobilità, servizi di base – destinati alla popolazione già residente per scongiurare lo stillicidio dello spopolamento, che un’élite di lavoratori da remoto – da sola – non può certamente invertire.

Ulteriori approfondimenti

Graziano T., Smart Territory. Attori, flussi e reti digitali nelle aree “marginali”, Franco Angeli, Milano, 2021.

Graziano T., “Digitalizzazione e nuove geografie del lavoro: l’impatto sui territori. Un’analisi critica.” In South Working. Per un futuro sostenibile del lavoro agile in Italia, a cura di Mario Mirabile ed Elena Militello, Donzelli editore, Roma, 2022.

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