29 Aprile, 2024

La cura al centro, per un abitare collaborativo

Tempo di lettura: 6 minuti

Lo sguardo di genere sulla città e sull’architettura, nel momento in cui entra nello spazio domestico e si interroga sul suo ruolo nella vita delle donne, scopre un cuore pulsante di temi che convergono ed acuiscono le disparità, proprio lì, dove le donne sono state confinate per la maggior parte delle loro vite, e dove ancora oggi si narra siano più al sicuro che nello spazio pubblico[1].

Non ci soffermeremo qui sul dato che mostra proprio come la casa sia in realtà il luogo meno sicuro per le donne[2], ma è un’informazione che non va in ogni caso dimenticata nel momento in cui si prova a ragionare sul ruolo che lo spazio domestico ha avuto in passato e ancora oggi ha per il genere femminile, sia da un punto di vista simbolico, sia da uno estremamente concreto. Già di per sé, la radice del termine “domestico”, domus, dà origine a parole che denotano un controllo potenzialmente violento: il dominus, “il padrone di casa”, e tutte le sue declinazioni legate al concetto di dominio.

La domesticizzazione della donna mediante l’attribuzione di una presunta maggiore propensione nella gestione dei lavori domestici ma anche nella decorazione della casa è, sin dalla sua nascita, un processo essenziale per la sopravvivenza del capitalismo. La casa diventa da subito e in maniera sempre più consolidata il nido d’amore e di privacy, la sfera di pertinenza femminile e il luogo protetto che va curato, pulito, arredato e abbellito. È nella casa che si esprime un modello di vita basato sul nucleo isolato della famiglia, reso desiderabile nonostante il prezzo che comporta: debiti, spese, ma anche isolamento e lavoro non retribuito socialmente invisibilizzato, che per decenni ha rappresentato l’unica occupazione della maggior parte delle donne occidentali.

L’abitare collettivo e collaborativo, se osservato secondo questo sguardo, si offre come una prospettiva quasi necessaria, come un bisogno di cui dobbiamo ancora renderci pienamente conto, sia come strumento di liberazione delle donne – se consideriamo che ancora oggi «i 3/4 del lavoro di cura non retribuito nei paesi mediterranei viene svolto dalle donne della famiglia»[3] – sia come strategia di riformulazione di un abitare più affine alla condizione familiare e affettiva contemporanea.

La dinamica di confinamento domestico delle donne, ancora oggi “angeli del focolare”, insieme alla paradossale e tuttavia implicita pretesa di vederle pienamente inserite nel mercato del lavoro, nonché alle evidenti difficoltà quotidiane della gestione di casa-famiglia-lavoro per chiunque abbia figli piccoli, genitori anziani, persone non autonome a carico, sono temi che necessitano di essere posti al centro, e in questo anche il progetto per l’abitare può collaborare a ripensare un’organizzazione sociale del concetto di famiglia e di ciò che le nostre case ripropongono più o meno consapevolmente nella propria definizione spaziale.

Ancora oggi la famiglia nucleare è il modello di organizzazione primario delle nostre società: è alla famiglia che si rivolge il mercato per stimolare il consumo, è intorno alla famiglia che si accumulano sprechi di risorse e di tempo, è relativamente alla famiglia che si controllano i corpi e si definiscono i ruoli. Lo spazio della casa nasce storicamente intorno a un’idea di luogo in cui sono esercitati rapporti di potere e sono costituite chiare gerarchie, spazio destinato e dedicato alla famiglia intesa non tanto e non solo come unità biologica o affettiva, bensì «come costrutto economico e giuridico il cui obiettivo è di garantire sia la riproduzione della popolazione sia l’ordine generale della società»[4].

​​Per quanto oggi l’abitazione moderna sia diventata per molte persone anche il luogo del lavoro produttivo – e ancora di più a seguito della pandemia da Covid-19 che ha forzato dentro le mura domestiche quasi tutte le attività umane – la mancata socializzazione del lavoro di cura non ha subito trasformazioni rilevanti e, anzi, ha inasprito ulteriormente la mancata possibilità di vivere la casa come luogo del riposo, portando dentro le mura domestiche le dinamiche del lavoro produttivo sovrapposte agli impegni familiari. Le famiglie, di dimensioni sempre più ridotte, sono oggi più che mai isolate all’interno di piccoli appartamenti, frutto di un mercato immobiliare ormai inaccessibile soprattutto nelle grandi città. Si tratta di un paradosso pienamente rappresentativo del momento storico di transizione che stiamo attraversando; come dicono Aureli e Tattara, «La vita familiare è sostenuta ideologicamente e al contempo messa in discussione di fatto dall’economia attuale»[5].

La casa, a ben guardare, è il luogo che più di tutti rappresenta la subordinazione delle donne agli uomini e il luogo della riproduzione materiale del proprio ineluttabile destino. Per questa ragione è proprio a partire dalle case che occorre scrivere una storia diversa, che passi per la liberazione dei corpi femminili e che faccia della cura lo strumento per una radicale trasformazione sociale e culturale; che ponga proprio la cura al centro del progetto – rendendola così visibile e condivisibile -; che riduca inoltre al minimo la tanto preziosa quanto pericolosa impenetrabilità dello spazio domestico, pur mantenendo la possibilità di uno spazio privato.

Per rendere concreto questo tipo di visione occorre anzitutto allargare il concetto di cura, per trasformarlo da strumento di oppressione a strumento di emancipazione; allargare i confini della famiglia nucleare per includere altre figure oltre ai genitori di sangue è un primo importante passo per allargare le pareti delle mura domestiche che opprimono le donne: «strategie abitative innovative ed egualitarie che portino a nuove forme di abitazione non possono essere sviluppate senza una riformulazione della famiglia tradizionale e della sua divisione del lavoro in base al genere»[6].


Per approfondire

[1] Si veda Ella Whelan, This feminism of fear is bad for women, pubblicato in «Spiked» il 08 ottobre 2021, https://www.spiked-online.com/2021/10/08/this-feminism-of-fear-is-bad-for-women/

[2] Più del 76% delle violenze di genere sono classificabili come violenze domestiche e avvengono per mano di conoscenti, amici, parenti, partner, ex partner.

[3] Save the Children, Le equilibriste. La maternità in Italia 2021, Report, Roma 2021, p.20.

[4] Pier Vittorio Aureli, Maria Shéhérazade Giudici, “Orrore Familiare. Per una critica dello spazio domestico”, in Disagiotopia. Malessere, precarietà ed esclusione nell’era del tardo capitalismo, a cura di Florencia Andreola, DEditore, Ladispoli (RM) 2020, p.139.

[5] Aureli Pier Vittorio, Tattara Martino, Production/Reproduction: Housing beyond the Family, in Harvard Design Magazine, n. 41 / Family Planning, 2015. https://www.harvarddesignmagazine.org/issues/41/production-reproduction-housing-beyond-the-family

[6] Hayden Dolores, Redesigning the American Dream. Gender, Housing, and Family Life, Norton 2002 [1984], p.85.

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