27 Luglio, 2024

Diverse prospettive di “giustizia spaziale”

Tempo di lettura: 3 minuti

Dopo più di un decennio di intensi dibattiti attorno al tema, potremmo sintetizzare la sfida della “città giusta” come un programma di ricerca e di intervento che permetta a tutti i cittadini di auto-realizzarsi, al pieno del loro potenziale. Non a caso il tema della “giustizia spaziale” (o della “città giusta”) viene invocato spesso in concomitanza con il riconoscimento di certe disuguaglianze socio-economiche percepite come deleterie, o dis-funzionali, al raggiungimento di certi obiettivi desiderabili per lo sviluppo delle società.
Secondo Stefano Moroni, le condizioni di “giustizia spaziale” non possono essere dedotte dall’osservazione diretta di certe configurazioni finali dello spazio: lo spazio non è giusto o ingiusto in quanto tale, piuttosto possono essere giusti o ingiusti i rapporti soggiacenti a certe configurazioni. Questi aspetti, che sono strettamente connessi a una prospettiva di institutional design sono essenziali per capire i problemi in gioco e affrontare importanti questioni sulle misure necessarie per tutelare i cittadini e i loro diritti sociali di base (ad esempio, libertà civili, economiche, politiche).
Lavorare all’interno del paradigma di una idea di “spazio (più) giusto” non può prescindere da una revisione critica dei propri assunti, compresi i pregiudizi che permeano ogni disciplina. In quest’ottica, il contributo di Sarah Chiodi, Erika Kneib e Marcelo Ribeiro esplora come e in che misura il raggiungimento di tali obiettivi passino anche dal progetto pedagogico, soprattutto a livello universitario. Diverse facoltà di Architettura e Urbanistica nel mondo sono oggi interessate a contribuire a sostanziare il diritto alla città, in varie declinazioni, e soprattutto in termini di “funzione sociale della proprietà”.
Dai lavori di Stefano Cozzolino si comprende infatti come lavorare attorno ai diritti e doveri della proprietà non possa prescindere dalla necessità di lavorare per una distribuzione ampia e diversificata delle responsabilità progettuali. Il punto qui è comprendere come garantire un certo potere di azione e controllo sull’ambiente costruito, possibilmente distribuendo e adattando tali capacità alle più diverse volontà, ambizioni, risorse e preferenze degli attori urbani. L’idea che solo un intervento esterno possa calmierare (o del tutto evitare) certi effetti deleteri del vivere insieme, non è priva di costi e conseguenze.
Claudia Basta, ci invita a sviluppare un ragionamento più critico attorno a modelli eletti di “città giusta”. Delegare il destino dei territori in mano a pochi e soliti players (culturali, economici, epistemici, politici), lavorare all’interno di idee preordinate di “buono” e “giusto”, rischia di indurre – scholars e practictioners – alla rievocazione di antichi pregiudizi (ed errori fatali) su criteri distributivi e redistributivi per un modello di città, probabilmente inesistente e per certi versi indesiderabile.
Appare chiaro che attorno alla riflessione sulla “giustizia spaziale” si snodano importanti sfide istituzionali, culturali, progettuali, e (re)distributive.
Un progetto di “giustizia spaziale” potrebbe richiedere di riconoscere che non tutte le disuguaglianze socio-economiche sembrano dipendere dalla mera scarsità di risorse, ma anche dall’inibizione dei processi da cui l’esistenza di tali risorse dipende. Considerando l’Italia, e diverse altre parti del mondo, il mancato o ritardato sviluppo di certe aree non sembra essere solo la causa (o ragione) di una forma di “ingiustizia” territoriale, ma anche l’effetto (o impatto) di una serie di distorsioni delle “regole del gioco” essenziali per la prosperità socio-economica (si pensi all’impatto profondamente negativo della corruzione). Tali argomenti toccano anche aspetti deontici, con cui amministrazioni, progettisti architettonici e urbani, policy-makers, consulenti e analisti di varie estrazioni, devono fare i conti. In sunto, in questo editoriale vorremmo suggerire che, tanto più saremo disposti a proteggere certi i diritti sociali essenziali, dandone forma a livello empirico, integrandoli nei percorsi formativi/culturali, distribuendoli ed estendendoli nel tempo, tanto più sarà possibile “rendere giustizia” laddove serve di più.

Figura 1 – Piazza Massena, Nizza (2021) @ Anita De Franco

Articoli correlati

Il regionalismo conflittuale del secolo scorso di fronte alle nuove sfide

Il regionalismo conflittuale del secolo scorso si trova oggi di fronte a sfide globali e tecnologiche che ne evidenziano l’inadeguatezza. Le previsioni degli anni '90 sulla fine degli stati nazionali e sull'emergere di un'Europa delle Regioni si sono rivelate illusorie, incapaci di rispondere alle nuove dinamiche imposte dalla globalizzazione, dal reshoring delle imprese e dalla crescente interconnessione tecnologica. Oggi, la riforma del titolo V della Costituzione e la spinta autonomistica mostrano i limiti di una politica incapace di adattarsi a tali cambiamenti, aumentando la confusione nei rapporti fra lo Stato e le Regioni e intensificando i conflitti tra forze politiche e territori.

Politicizzare la “restanza”

La marginalizzazione delle aree interne non è un esito di dinamiche naturali, bensì il risultato di politiche pubbliche urbanocentriche, che hanno aumentato le disuguaglianze territoriali. Per invertire le tendenze servono sguardi nuovi, dare voce ai residenti, a chi è restato e a chi è tornato a vivere in altura, ascoltare chi vuole partire, gli innovatori, quanti manutengono e rafforzano le relazioni e l’economia minuta dei paesi. Sul piano delle politiche, bisogna superare la normatività del tot e costruire nuove forme di intervento pubblico attente alle persone nei singoli luoghi.

Un welfare su misura per le aree demograficamente rarefatte

Le trasformazioni demografiche in atto in Italia hanno già, e avranno in un futuro molto vicino, importanti ricadute sulla coesione sociale. Richiedono attente valutazioni nel campo delle politiche di welfare e percorsi sperimentali da avviare in tempi rapidi. Perché non iniziare dai contesti territoriali in cui la presenza umana si è ridotta più marcatamente, nelle aree interne contrassegnate dalla rarefazione demografica? Servono un approccio place based e uno sguardo che fa del margine un osservatorio privilegiato per l’analisi di questioni che riguardano l’intero Paese.

Spopolamento e bellezza, accoglienza e parola

Le politiche di contrasto allo spopolamento delle aree interne possono diventare vincenti se sensibili ai luoghi e alle persone che li abitano, se strettamente connesse e ispirate alle peculiarità del territorio e all’identità culturale di chi ci vive. Dovrebbero alimentare, in chi non ha ancora abbandonato la propria terra e nei giovani che si sono assentati per studiare o che sono andati a lavorare altrove, la consapevolezza di quello che il territorio ha da dare. In modo da innescare “sguardi nuovi” su “antiche certezze”, attualizzare il presente senza dimenticare il passato, immaginare come essere protagonisti nel futuro. In tutto questo la “bellezza” e la “parola” sono due dimensioni fondamentali, innate e presenti, magari dormienti e pertanto riattivabili

Libere, non coraggiose. Per pianificare città più sicure per tutti i corpi

La paura del crimine è un problema più grave del crimine stesso», diceva Rachel Pain nel 2001. In particolare, la paura che donne e soggettività queer percepiscono negli spazi pubblici, soprattutto di sera e di notte, è un argomento di cui oggi più che mai è necessario occuparsi. Sebbene la percezione di insicurezza sembri essere più legata a narrazioni mediatiche che alla effettiva pericolosità delle città, è importante mettere a fuoco i fattori che concorrono a questa sensazione e, attraverso analisi di casi specifici, delineare una serie di pratiche utili a trasformare le nostre città e realizzare spazi pubblici più sicuri e accessibili per tutti.