Alto Adriatico, laboratorio del futuro: così il clima ridisegna coste e città
L’idea di un possibile arretramento delle aree urbanizzate costiere a fronte del cambiamento climatico e del conseguente innalzamento del livello medio del mare è di fatto quasi totalmente assente dal dibattito pubblico. La questione non riguarda solo l’accettazione dei dati e delle previsioni scientifiche, ma anche fattori culturali profondi: fatichiamo a immaginare scenari futuri che mettono in discussione luoghi e abitudini che consideriamo parte della nostra identità. Per questo la ricerca qui esposta –intitolata “Diluvio. Visualizzare l’impensabile”, ideata e coordinata da chi scrive e sviluppata grazie ad un bando Young Researchers nell’ambito della più ampia ricerca iNEST Spoke 8– propone di utilizzare mappe e visualizzazioni per rendere più comprensibili i rischi futuri e stimolare una discussione collettiva. Solo pianificando scenari di adattamento e solidarietà territoriale sarà possibile affrontare in modo consapevole le trasformazioni imposte dal cambiamento climatico. Si vuole quindi analizzare il rapporto complesso tra cambiamento climatico, pianificazione territoriale e interessi immobiliari, ponendo in evidenza come l’abitudine e i modelli culturali consolidati limitino la capacità collettiva di affrontare scenari radicali e apparentemente impensabili, quali l’eventuale arretramento o abbandono di territori minacciati dall’innalzamento del livello dei mari. La difficoltà non risiede nella mancanza di dati scientifici, ma in un deficit di immaginazione e nella resistenza a mettere in discussione paradigmi dominanti, come quello, ancora egemone, della crescita illimitata.
In questo quadro, il settore immobiliare gioca un ruolo determinante: la sua influenza economica e politica contribuisce a perpetuare modelli insostenibili, soprattutto in aree costiere ad alto rischio. Le implicazioni sono evidenti sia nelle aree metropolitane globali (New York, Mumbai, Tokyo), sia nei poli turistici sviluppatisi nel XX secolo (Miami, la costa mediterranea spagnola), fino al contesto dell’Alto Adriatico. Quest’ultimo rappresenta un caso emblematico per l’intreccio tra patrimoni culturali e ambientali di valore universale (Venezia, Aquileia) e ingenti investimenti immobiliari nelle località balneari (Bibione, Jesolo, Lignano Sabbiadoro).

La sfida non riguarda soltanto la riorganizzazione spaziale di territori con ampie aree in decrescita demografica, ma si estende al rischio di perdita irreversibile di stratificazioni culturali millenarie. A fronte di ciò, il dibattito sull’eventualità di un arretramento controllato rimane marginale, mentre è urgente riflettere su forme di solidarietà territoriale e su strumenti di pianificazione capaci di affrontare le conseguenze economiche, sociali e culturali del cambiamento climatico.
Il lavoro si inserisce in una tradizione di studi che, da Herman Kahn ad Amitav Ghosh, hanno esplorato il tema dell’“impensabile”, mostrando come narrazioni e memorie collettive condizionino la nostra capacità di immaginare futuri radicalmente diversi. Se, da un lato, la globalizzazione ha amplificato il peso delle lobbies edilizie e favorito una crescita incontrollata nelle zone costiere, dall’altro la ricerca scientifica ed esperienze internazionali –come il progetto olandese Safety First o le analisi della First Street Foundation negli Stati Uniti– hanno evidenziato la necessità di strumenti di previsione e pianificazione basati su scenari e visualizzazioni cartografiche.
In questa prospettiva, l’Alto Adriatico diventa un laboratorio privilegiato per sperimentare metodologie innovative di rappresentazione e valutazione dei rischi, capaci non solo di stimolare la consapevolezza pubblica, ma anche di orientare processi decisionali strategici. La visualizzazione delle possibili perdite a lungo termine, infatti, non ha un valore meramente descrittivo, ma costituisce uno strumento fondamentale per la comunicazione del rischio, il dibattito pubblico e la definizione di politiche di adattamento.

Oltre l’inerzia: pianificare il cambiamento
In questo scenario complesso diventa sempre più evidente l’urgenza di sviluppare strumenti e metodi capaci non solo di rappresentare i rischi, ma anche di stimolare un cambiamento culturale. Come sottolineano Vogel e O’Brien, è necessario mettere in discussione le visioni consolidate del mondo e le abitudini radicate per avviare trasformazioni che coinvolgano sia la consapevolezza e capacità individuali che quelle collettive. Solo così sarà possibile affrontare con lucidità e responsabilità le conseguenze del cambiamento climatico sulle nostre coste e, di riflesso, sulle nostre società.
Nonostante il cambiamento climatico sia riconosciuto dalla comunità scientifica almeno dalla metà del XX secolo, solo dagli anni Ottanta è entrato con forza nel dibattito politico internazionale. Nel 1992 è stata istituita la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e già allora l’Alleanza dei Piccoli Stati Insulari (AOSIS) aveva proposto strumenti di compensazione e assicurazione per le perdite legate all’innalzamento del livello del mare. Più recentemente, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha ribadito che gli eventi estremi e la variabilità climatica non solo spingono direttamente alla migrazione forzata, ma compromettono indirettamente i mezzi di sussistenza legati al clima, generando ulteriori spostamenti di popolazione. La maggior parte di queste migrazioni avviene all’interno dei confini nazionali, ma anche i movimenti internazionali sono destinati ad aumentare, soprattutto tra paesi confinanti.
La crescente consapevolezza della necessità di pianificare strategie di “ritiro controllato” dalle aree costiere più esposte si scontra tuttavia con numerosi ostacoli. Da un lato, vi è la difficoltà di abbandonare siti di altissimo valore culturale e ambientale; dall’altro, pesano fortemente gli interessi economici delle lobbies turistiche e immobiliari, nonché l’attaccamento delle famiglie ai propri beni. Questa resistenza alimenta un’inerzia che incide in modo significativo sulla presa di decisioni che abbiano ricadute nel medio e lungo periodo.
Alla luce di queste condizioni, è urgente che la pianificazione territoriale assuma un ruolo proattivo nell’immaginare scenari di arretramento controllato e nel costruire strategie condivise di adattamento. Solo così sarà possibile affrontare in maniera consapevole e solidale le trasformazioni indotte dal cambiamento climatico, evitando che l’inerzia culturale e l’interesse economico immediato continuino ad ostacolare scelte necessarie –ed in qualche modo inevitabili– a lungo termine.
Approfondimenti
- Aerts, J.C.J.H., Sprong, T., Bannink, B. (2008) Aandacht voor Veiligheid. Amsterdam: Vrije Universiteit
- Carraro, C. (a cura di) (2008) Cambiamenti climatici e strategie di adattamento in Italia. Una valutazione economica. Bologna: Il Mulino.
- Kahn, H. (1962) Thinking about the unthinkable. New York: Avon.
- Ghosh, A. (2016) The Great Derangement. Climate change and the Unthinkable. Chicago: University of Chicago Press. Tr. It La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile. Vicenza: Neri Pozza (2017)
- Vogel, C., O’Brien, K. (2022) Getting to the heart of transformation, in Sustainability Science 17, 653–659. https://doi.org/10.1007/s11625-021-01016-8


