Trenta anni fa, in forme spesso confuse e contradditorie, si afferma con forza anche in Italia – nella prassi e nel quadro legislativo – un’idea di urbanistica contrattuale/consensuale per progetti urbani. Al contempo si delinea, con una maggior incertezza, un’idea di piano urbanistico generale che si disarticola in due diverse componenti: la prima che definisce un complesso di regole per trasformazioni minute della città esistente; la seconda, spesso definita come strutturale-strategica, che delinea ex-ante alcuni indirizzi per quell’urbanistica contrattuale e per progetti che, in una stagione che si suppone di esaurimento dell’espansione urbana, dovrebbe investire soprattutto gli ambiti di ristrutturazione urbanistica intensiva.
La recente raccolta di saggi pubblicati nel corso di un ventennio da Luca Gaeta mi sembra riproponga le buone ragioni – e il possibile legame con una impostazione riformista – di forme di regolazione negoziali-contrattuali, che si affiancano a una regolazione autoritativa su altri tipi di interventi trasformativi.
Con la necessaria distanza temporale, credo si debbano osservare con onestà non solo le buone ragioni (e il carattere ingiustificato di alcune passate critiche ad essa), ma anche i risultati deludenti di questa modalità dell’azione urbanistica, e anzi la sua attiva partecipazione a una delle peggiori stagioni del governo del territorio del nostro paese. Le ragioni di questo giudizio critico mi sembra siano a riconducibili a questi elementi: a) il diffuso e problematico incremento della frammentazione dello spazio urbano in ragione di una modalità del costruire e di un disegno del suolo fortemente introverso e totalmente autoreferenziale in ciascun progetto contrattato; b) la realizzazione di molte trasformazioni urbane senza il più elementare coordinamento tra usi del suolo e infrastrutture della mobilità, tra dimensione dell’intervento e infrastrutture del welfare con la relativa domanda di servizi generata e soprattutto con impatti devastanti sul sistema paesistico-ambientale, con consumo di suolo e distruzione di reti ambientali e paesaggi qualificati; c) la frequente realizzazione di spazi di uso pubblico e di attrezzature funzionali alla valorizzazione immobiliare dell’area più che a rispondere a esigenze complessive della città o del settore urbano coinvolto; d) la quota limitatissima di rendita differenziale intercettata (poco più degli standard e degli oneri dovuti in fase espansiva, sempre di meno dopo la crisi del 2008 anche in contesti dinamici); e) la frequente mancata incorporazione nel suolo delle quote di rendita intercettate con queste trasformazioni.
Nel volume di Gaeta troviamo richiamate alcune delle ragioni che possono portare e in effetti hanno portato ad esiti largamente insoddisfacenti, se non fallimentari.
Ne ricordo alcune. Innanzitutto, il fatto che l’urbanistica contrattuale si è sviluppata in modo “sregolato” in contrasto a un piano tradizionale che rimane come un feticcio formale e al di fuori un qualche generale nuovo strumento di indirizzo e di valutazione e non ha trovato figure tecniche interne alla amministrazioni capaci di gestire la negoziazione pubblica-privata o perlomeno a valutare le possibili esternalità negative nel medio-lungo periodo e non solo i ritorni contabili nel breve e con attenzione ad aspetti sociali, culturali, architettonici- non riducibili ad una contabilità economica. Parimenti, la frequente tendenza a non incorporare nel suolo e in attrezzature quella quota di incremento di valore che per ragioni di giustizia sociale il pubblico catturava (e ricorrendo invece ad una monetizzazione che la legislazione ha consentito di disperdere nella spesa ordinaria). Inoltre, il fatto che in molti contesti – a partire dai piccoli e medi comuni – si è creata una crescente asimmetria tra attori pubblici deboli e in drammatica ricerca di risorse in una continua situazione emergenziale e attori privati economicamente forti, che possono scegliere di operare in comuni e città diverse e/o sempre più influenti nel governo urbano; tale asimmetria è diventata ancora più grave in un contesto di crisi e/o contrazione. L’urbanistica contrattuale per progetti si è dimostrata non solo inadeguata in una fase di ciclo negativo – o molto più probabilmente di strutturale e diffusa contrazione – perché nei contesti meno problematici accresce enormemente il potere dei soggetti privati, ma anche perché in quelli incerti è alla base di operazioni interrotte e realizzate a “spezzatino” e nei contesti deboli -in decisa contrazione – si è mostrata del tutto inadeguata a promuovere o orientare necessarie/auspicabili forme di riuso adattativo e/o temporaneo e/o parziale. Inoltre troppo spesso si è ricorsi all’urbanistica contrattuale per gestire nuove espansioni dell’urbanizzato – produttive e molto più frequentemente commerciali e logistiche – che avrebbero dovuto coordinarsi con una progettualità multifunzionale relativa alle reti infrastrutturali e alle reti verdi e la definizione di assetti ecologico paesistici degli ambienti insediativi in cui si inserivano (che non possono essere definiti nella pratica per progetti contrattati).
Vi sono, a mio parere tre altre ragioni alla base di questi esiti deludenti, di cui l’ultima in parte in contrasto con un punto della riflessione dell’autore.
La prima sta nell’inadeguatezza di strumenti di indirizzo – del tutto evidente sia nei documenti di indirizzo della legge 9 lombarda, sia nell’ultima generazione dei PUG emiliani – per il linguaggio generico, verboso e non spazializzato (assunto dalla pianificazione strategica in campo economico-gestionale), con una specificazione limitata al suolo, solo e secondo forme di tutela conservativa, di alcuni elementi “invarianti”. In estrema sintesi mi pare di poter sostenere che quegli strumenti non forniscono all’urbanistica contrattuale nessun orientamento pertinente che invece poteva venire intrecciando con indirizzi territorializzati e disegnati le riflessioni di Secchi sul “progetto di suolo”, quelle di Mazza sulle griglie ordinative dell’urbanistica e quelle maturate in ambito paesaggistico ed ambientale sullo spessore storico-ecologico del suolo. Indirizzi definibili all’intera scala urbana nei comuni piccoli e medi e forse nelle più grandi città ad una scala intermedia tra quella dell’intero comune e quella del singolo progetto. Anche la valutazione ex post, senza simili indirizzi che le supportassero e legittimassero si è potuta limitare al più e al meglio ad elementi contabili e a qualche specifico parametro di efficienza tecnico-ingegneristica del progetto.
La seconda è legata al fatto che non ci può essere buona urbanistica contrattuale senza il coinvolgimento di soggetti che si collocano in basso e in alto. Rarissimo è stato il coinvolgimento della società civile (e in esso anche dei soggetti con meno capitale culturale e relazionale) in qualche forma di dibattito pubblico su queste scelte. Quasi totalmente assente un ruolo di guida di attori sovracomunali nel definire un punto di riferimento nella negoziazione (ci si è potuti appoggiare solo ai vecchi e mai sufficientemente lodati standard); sia nel delineare indirizzi di disegno del territorio d’area a vasta – con esiti ambientali devastanti per gli insediamenti commerciali e logistici; sia nel definire degli indirizzi generali di riorganizzazione dello spazio urbano – ad esempio spingendo a costruire al suolo trame di infrastrutture della vita quotidiana, fuori dal perimetro dell’area di intervento, individuando – come nell’esperienza francese – quote minime di edilizia sociale e indirizzi verso forme di demolizione parziale e riuso adattativo ecologicamente e paesaggisticamente più interessanti.
La terza questione è legata a ragioni di cassa nel brevissimo periodo attraverso un adeguamento del tutto erroneo dal punto di vista concettuale e pratico del patrimonio demaniale alle logiche della proprietà privata – di valorizzazione economica. Questo ha portato all’infelice inserimento nell’alveo dell’urbanistica contrattuale di demani pubblici che avrebbero potuto essere leve fondamentali sia nel medio periodo per una virtuosa politica sociale e ambientale, sia come preziose riserve di valore (non di scambio) per le generazioni future.
Lanzani A. (2015), Città, territorio, urbanistica tra crisi e contrazione : muovere da quel che c’è, ipotizzando radicali modificazioni. FrancoAngeli.