Come intendere l’effetto boomerang avuto dall’introduzione del contributo d’accesso per i turisti a Venezia?
È essenziale esaminare le origini e le conseguenze dell’overtourism veneziano per comprendere la situazione attuale. Venezia è spesso citata come caso da manuale dell’overtourism, non solo per le dimensioni del fenomeno (un indice di pressione da 10 a 20 volte superiore rispetto a qualsiasi altra destinazione urbana al mondo), ma soprattutto per le conseguenze dirette sulle dinamiche sociali e produttive.
In un testo curato da Ignazio Musu un ventennio fa, si proponeva ancora la tesi – condivisa da molti esperti – che non esistesse una relazione causale diretta tra espansione dell’attività turistica e perdita di altre attività produttive e di popolazione. Semplicemente, Venezia, per la sua configurazione morfologica e la patrimonializzazione crescente del suo stock immobiliario, stava perdendo rilevanza produttiva e capacità di attrarre popolazione, e i vuoti lasciati venivano progressivamente occupati dal turismo, l’unico uso produttivo che è perfettamente compatibile con la progressiva erosione di tutto il resto.
Negli ultimi dieci-quindici anni, a questa tendenza naturale si è aggiunto l’impatto dell’occupazione di spazio riproduttivo da parte del turismo e dei turisti: un impatto diretto, non mediato da riconfigurazioni produttive, e rappresentato dalla conversione a grande scala della casa in alloggiamento turistico. Stiamo parlando di una città in cui, in assenza di regolazioni nazionali, regionali o municipali che invece sono state progressivamente adottate da altre destinazioni in tutto il mondo (tardi e alcune volte male), osserviamo un numero di unità abitative destinate a soggiorni brevi superiore a quello delle residenze permanenti. O ci arriveremo presto.
Queste tendenze sono note da decenni, sin dagli anni ’80, quando è iniziato il dibattito sul ‘turismo come problema urbano’. La domanda sorge spontanea: come mai a fronte di queste tendenze non sono state adottate misure efficaci?
Nonostante tentativi di pianificazione strategica, interventi di esperti e cambiamenti nel contesto competitivo, nessun governo ha avviato una riflessione seria sul futuro della città di fronte a questo tsunami sociale. Altre città, con problemi minori rispetto a Venezia, hanno almeno messo in discussione i loro modelli di crescita. In Italia e nel Mediterraneo, invece, siamo ancora fermi negli anni ’80, convinti che il turismo porti vantaggi diffusi attraverso la creazione di posti di lavoro e preservi il patrimonio, mentre in realtà chi se ne sta beneficiando è la classe dei piccoli proprietari immobiliari, trasformata in rentier di massa, o i più grandi inversori globali.
L’ambivalenza delle narrative sulla crescita è regolarmente smentita dalla ricerca seria, che dimostra invece che a Venezia, come altrove, i posti di lavoro nel turismo sono per lo più precari, mal pagati e non contribuiscono alla mobilità sociale che ci si aspetterebbe in una società prospera.
Tuttavia, né la classe politica né la società in senso ampio è attenta al dibattito accademico, che già 20 anni fa evidenziavano le problematiche attraverso importanti riviste del settore. Gli studi avvertivano che, sebbene Venezia potesse rimanere una destinazione turistica di grande attrattivo nonostante la sua crisi, la capacità del turismo di generare valore legato alla qualità urbana e culturale sarebbe diminuita nel tempo insieme alla perdita di riproduzione del capitale sociale. Dunque, per sostenere i posti di lavoro di bassa qualità e giustificare l’assenza di intervento in questo modello di sviluppo, Venezia ha bisogno di un turismo sempre ‘peggiore’, più distruttivo e più invasivo. Una spirale catastrofica, un ‘circolo vizioso’ amplificato dalle nuove tecnologie, che, lungi dall’essere una soluzione, hanno aggravato la situazione. Con ogni cittadino che, grazie a internet e tre stanze libere, diventa un agente dell’estrattivismo.
Quando c’è un problema, si cerca di risolverlo con soluzioni razionali. Nel turismo, la tentazione di risolvere il problema dell’eccesso della pressione turistica con un intervento ‘di mercato’ (chiudere, privatizzare, esigere un prezzo d’entrata) è forte, ma spesso prescinde dalla natura stessa di quei luoghi, dalle loro genealogie e le capacità riproduttive.
Un esempio è Barcellona nel 2014, dove per affrontare il sovraffollamento del Parc Güell, un sito UNESCO progettato da Gaudí, è stato creato un recinto a cui si accede solo a pagamento. Questo ha generato entrate per la città ma non ha risolto il problema del sovraffollamento e dei rischi per la conservazione. Ma la questione più importante è che in nome della ‘gestione turistica’ un parco pubblico, il cuore della vita del quartiere, si è trasformato in un luogo privato dove l’accessibilità per i residenti è altamente regolata.
La stessa logica perversa, la stessa ignoranza diffusa tra coloro che dovrebbero prendere le migliori decisioni per i cittadini, unite alla complicità tra politica, estrattivismo, e il conto di chi alla fine ci guadagna e ha potere discorsivo (mentre altri ne pagano le conseguenze senza poter intervenire) sono alla base del modello di contributo d’accesso a Venezia, a scala di città.
Il ticket non allevia la pressione turistica, come è facilmente dimostrabile con numeri, o foto, o testimonianze presenti quotidianamente nei media sociali o analogici. L’elasticità di prezzo di chi vuole visitare Venezia, anche solo per poche ore, è praticamente nulla. Il sistema di esenzioni è farraginoso, ingiusto e pieno di crepe, inefficiente nella sua implementazione e altamente problematico per le famiglie che di questi stessi flussi vivono, giacché è oggi difficilissimo tracciare una linea distintiva tra turisti e non turisti.
Inoltre, il comportamento del visitatore pagante è inevitabilmente destinato a prediligere pratiche di uso del luogo incompatibili con le regole basilari di convivenza, compensando il costo del ticket risparmiando su altri servizi. Ancora più inquietante è la cessione obbligatoria dei dati personali riguardanti chi visita la città, dove alloggia, quanto tempo si ferma, ecc. Questa è la più grande privacy breach finora imposta istituzionalmente da un governo ai suoi cittadini.
Ma ciò che dovrebbe far tremare le gambe ai Veneziani (i pochi rimasti) e ai residenti di altre città in cui si stanno valutando le stesse misure, come Verona, è che per la prima volta Venezia, città millenaria, incrocio di culture, storicamente costruita su flussi, accoglienza, e stratificazione di forme di vita in un paesaggio che deve il suo attrattivo proprio a questo, viene dichiarata ‘recinto turistico’, come Pompei, il Parc Güell, le grotte di Lascaux. Non esiste più un progetto alternativo di città (ricordate 15-20 anni fa, la Venezia ‘capitale delle telecomunicazioni’? Sede globale di industrie culturali? Città-residenza universitaria?).
È evidente che qualsiasi tentativo di diminuire la pressione turistica sulla città non può limitarsi a un semplice strumento di regolazione come l’attuale ticket d’accesso, che per altro dovrebbe essere riformulato in base a concetti di capacità di carico stringenti. Non si dovrebbe consentire l’accesso a tutti coloro che pagano il ticket o che sono esenti, ma solo a quelli che possono usufruire dei servizi di alloggiamento disponibili e della mobilità senza gravare sulle risorse materiali ed economiche dei residenti. Sebbene questo sarebbe un sistema estremamente difficile da attuare e suscettibile a numerose falle e questioni fondamentali di ‘mobility justice’, risulterebbe comunque migliore dell’attuale.
Per ridurre il peso del turismo è necessario costruire un futuro economico e sociale alternativo per la città: cominciare a riprendere seriamente una fase di pianificazione strategica per immaginare un futuro produttivo della città al di fuori del turismo e in settori a ben altro valore aggiunto, ‘liberando spazio’ e risorse dall’uso e consumo turistico, smantellando i meccanismi dell’iper-dipendenza da un settore cannibale.
In altre parole, il problema dell’eccesso di turismo si può risolvere solo al di fuori del turismo e nelle politiche urbane e regionali, della casa e delle infrastrutture. La questione della casa è fondamentale: per attrarre lavoratori qualificati e trattenere i talenti, Venezia deve liberarsi radicalmente dal giogo degli affitti brevi a uso turistico.
Non bastano dichiarazioni vaghe e ordinanze municipali oscure, la cui applicazione resta spesso incontrollata. La figura dell’affitto breve deve essere abolita, o almeno limitata a zone e strutture abitative dove la sovrapposizione con la domanda di residenze stabili è minima.
Dieci anni di studio sulla crescita della cosiddetta ‘ospitalità collaborativa’ hanno dimostrato che questo fenomeno, liquido e in continua evoluzione, è difficilmente regolabile all’interno del mercato. Si reinventa costantemente, eludendo ogni tentativo di tassonomia e fiscalizzazione, senza contare il potere di lobbying che spesso riesce a modellare i quadri legali e fiscali più favorevoli.
In vari suoi lavori, Filippo Celata dell’Università La Sapienza ha dimostrato che tutti i maggiori centri storici italiani hanno perduto popolazione residente in una correlazione molto alta con la crescita degli affitti brevi. La popolazione stabilmente residente, che genera identità e paesaggio, che tesse reti di capitale sociale e solidarietà, che promuove innovazione e partecipazione nella cosa pubblica, che vota, che paga le tasse, si sostituisce con una popolazione intermittente, temporale, che “consuma spazio” senza contribuire alla sua qualità riproduttiva ed è intrinsecamente deresponsabilizzata dalla cura del luogo in cui vive.
Tutti siamo turisti in qualche momento della nostra vita, e ne traiamo grandi benefici culturali e spirituali. Ma non possiamo lasciare che tutto sia a servizio del turista o che il turista sia l’unico soggetto in nome del quale si modellano gli spazi di vita.
Inoltre, Venezia, più di altre città al mondo, deve prendere seriamente la lotta contro il cambiamento climatico, non solo attraverso l’adattamento, ma anche mediante la mitigazione dei fattori che contribuiscono alla produzione di CO2. In particolare, la riduzione e riorganizzazione del trasporto aereo e marittimo, idealmente coordinata almeno a livello europeo, è una via cruciale per la decarbonizzazione dell’economia. e contribuisce ad alleviare la pressione della mobilità su città e comunità locali.
Tuttavia, finché persiste il mantra del XX secolo, che promuove l’idea di voler l’aeroporto più grande “per il bene del business”, l’ennesimo terminal crocieristico, la piscina più grande, il mega evento più affollato o il mall più attraente perché tutto questo “ci rende competitivi”, non ci sarà via d’uscita. Oggi, abbiamo il peggiore sistema di gestione dei flussi turistici immaginabile. È necessario ripartire da questa constatazione per formulare politiche radicalmente nuove e diversamente efficaci.
Ulteriori approfondimenti
Musu, I (ed.) (1998). Venezia sostenibile: suggestioni dal futuro. Bologna: Il Mulino. ISBN 8815067256, 9788815067258