27 Luglio, 2024

Rischio povertà e Covid-19: un’analisi dei fattori di fragilità a livello territoriale

Tempo di lettura: 5 minuti

La crisi pandemica dovuta al Covid-19 ha colpito duramente la società globale esercitando una forte pressione sul funzionamento dei sistemi non solo sanitari ma anche sociali dovuti allo shock economico innescato dalle misure di contenimento del virus. Non siamo ancora in grado di quantificare completamente l’effetto, soprattutto di lungo periodo, delle restrizioni e delle chiusure di diversi settori economici sui sistemi di produzione e sulle preferenze di consumo e di investimento delle famiglie. Tuttavia, possiamo riconoscere come questa condizione abbia portato inevitabilmente con sé delle conseguenze “disuguali”: l’emergenza ha contribuito all’aumento di vecchie e nuove forme di povertà e di deprivazione materiale.

Da questo punto di vista, l’Italia rappresenta un punto di osservazione privilegiato per indagare l’impatto dell’emergenza sanitaria sulle condizioni di vita degli individui in termini di povertà. L’Italia, infatti, è uno dei primi paesi europei ad essere stato colpito dalla pandemia ed è il primo ad avere adottato delle misure severe di lockdown e di distanziamento sociale. In secondo luogo, è un paese caratterizzato da alcuni elementi contestuali e socioeconomici che possono fungere da acceleratori nell’impatto della crisi economica dovuta alla pandemia, soprattutto in alcuni contesti territoriali: vivere in una determinata macroarea geografica o in una località urbana o rurale struttura diversamente il rischio di vivere in povertà o in una condizione di disuguaglianza. Infine, l’Italia ha uno dei tassi di incidenza della povertà assoluta più alti (7.7% nel 2020), nonché è uno dei paesi europei con la più alta incidenza di povertà da lavoro. Questo significa che la posizione lavorativa degli individui o delle famiglie può non rappresentare un elemento di protezione dal rischio di essere poveri, specialmente in un contesto di debolezza del sistema di welfare state e di progressiva deregolamentazione “ai margini” del mercato del lavoro, come nel contesto italiano.

Ma quali sono stati i gruppi sociali maggiormente esposti a una riduzione del reddito durante il primo anno di pandemia? In altre parole, qual è la relazione tra la condizione di povertà pre-pandemia e la successiva variazione di reddito? E inoltre, tenendo conto della frammentazione delle politiche di sostegno al reddito (la cui ammissibilità è stata strettamente condizionata dallo stato occupazionale e dalla tipologia di contratto dei lavoratori) che ruolo ha avuto la posizione lavorativa nel proteggere le famiglie dal rischio di cadere in una condizione di povertà? E l’area di residenza? I contesti economicamente più vivaci, come il Nord e i centri urbani di maggiori dimensioni, hanno avuto un ruolo protettivo?

I dati dell’Indagine Straordinaria sulle Famiglie Italiane della Banca d’Italia raccolti tra novembre 2020 e febbraio 2021 consentono di rispondere, almeno in parte, a questi quesiti. In particolare, consentono di analizzare la relazione tra la condizione di svantaggio o vantaggio socioeconomico precedente allo scoppio dell’emergenza sanitaria – intesa come la difficoltà o meno incontrata nel far quadrare i conti fino a fine mese (che permette di identificare situazioni di “povertà soggettiva”) – e la riduzione del reddito familiare (incluso qualsiasi sostegno al reddito ricevuto) nell’anno successivo. La relazione è stata analizzata anche osservando l’effetto della condizione occupazionale dei soggetti e del contesto residenziale, definito in termini di macroregione e di livello di urbanizzazione del comune di residenza. Questo ci permette di identificare coloro che sono stati più colpiti dalle conseguenze economiche della pandemia e che necessitano di un’attenzione specifica nelle politiche sociali.

Secondo i dati, poco meno di un terzo delle famiglie ha sperimentato una riduzione di reddito ad un anno dallo scoppio della crisi pandemica e circa il 14% delle famiglie ha visto una riduzione consistente del reddito, cioè con un decremento superiore al 25%. E, in termini di accumulazione di svantaggi, le famiglie più colpite sono state proprio quelle che erano (o si sentivano) già povere prima della pandemia, ossia coloro che hanno dichiarato di riuscire ad arrivare a fine mese con difficoltà o gravi difficoltà. Così, in linea con quanto osservato nella fase post-crisi finanziaria del 2008, le famiglie già deprivate hanno avuto più probabilità di sperimentare una condizione di deterioramento della loro situazione economica.

Si consideri ora l’impatto diversificato delle strategie implementate per il contenimento del virus e si tenga conto di come le misure straordinarie abbiano colpito in modo eterogeneo sia il settore economico sia i territori. I dati mostrano come alcuni gruppi sociali siano stati maggiormente esposti al rischio di vulnerabilità a seconda del loro status occupazionale e dell’area di residenza.

Da un lato, le famiglie residenti nei comuni medio-piccoli del Nord e del Centro sono state le più colpite dalla riduzione del reddito, in parziale linea con le dinamiche di povertà oggettiva evidenziate dalla statistica ufficiale nel periodo post-Covid (Istat, 2021). In contrasto invece con le tendenze osservate nell’ultimo decennio, le famiglie delle regioni meridionali sono state meno esposte al rischio, in quanto il blocco della pandemia sembra aver colpito soprattutto le aree più dinamiche e produttive del paese.

Dall’altro lato, si è delineato un chiaro modello di svantaggio sociale in base alla posizione nel mercato del lavoro di per sé già “ai margini” e frammentato nel periodo pre-pandemico: i lavoratori autonomi, i disoccupati e i lavoratori precari non sono stati tutelati a sufficienza nelle politiche di sostegno al reddito e dai sistemi di protezione sociale (es. CIG).

Nel complesso, i risultati evidenziano come il rischio di povertà conseguente alla pandemia non sia stato equamente distribuito tra la popolazione e portano con sé una riflessione sulla necessità di una pianificazione politica che prenda in carico le nuove disuguaglianze e le disuguaglianze strutturali di lungo periodo. Affinché queste politiche siano efficaci, devono essere disegnate e implementate a favore dei segmenti sociali più deboli e vulnerabili, tenendo conto del costo della vita e promuovendo una maggiore stabilità nel mercato del lavoro, proteggendone le risorse e i consumi dai periodi di shock economico.

Ulteriori approfondimenti

Articoli correlati

Il regionalismo conflittuale del secolo scorso di fronte alle nuove sfide

Il regionalismo conflittuale del secolo scorso si trova oggi di fronte a sfide globali e tecnologiche che ne evidenziano l’inadeguatezza. Le previsioni degli anni '90 sulla fine degli stati nazionali e sull'emergere di un'Europa delle Regioni si sono rivelate illusorie, incapaci di rispondere alle nuove dinamiche imposte dalla globalizzazione, dal reshoring delle imprese e dalla crescente interconnessione tecnologica. Oggi, la riforma del titolo V della Costituzione e la spinta autonomistica mostrano i limiti di una politica incapace di adattarsi a tali cambiamenti, aumentando la confusione nei rapporti fra lo Stato e le Regioni e intensificando i conflitti tra forze politiche e territori.

Politicizzare la “restanza”

La marginalizzazione delle aree interne non è un esito di dinamiche naturali, bensì il risultato di politiche pubbliche urbanocentriche, che hanno aumentato le disuguaglianze territoriali. Per invertire le tendenze servono sguardi nuovi, dare voce ai residenti, a chi è restato e a chi è tornato a vivere in altura, ascoltare chi vuole partire, gli innovatori, quanti manutengono e rafforzano le relazioni e l’economia minuta dei paesi. Sul piano delle politiche, bisogna superare la normatività del tot e costruire nuove forme di intervento pubblico attente alle persone nei singoli luoghi.

Un welfare su misura per le aree demograficamente rarefatte

Le trasformazioni demografiche in atto in Italia hanno già, e avranno in un futuro molto vicino, importanti ricadute sulla coesione sociale. Richiedono attente valutazioni nel campo delle politiche di welfare e percorsi sperimentali da avviare in tempi rapidi. Perché non iniziare dai contesti territoriali in cui la presenza umana si è ridotta più marcatamente, nelle aree interne contrassegnate dalla rarefazione demografica? Servono un approccio place based e uno sguardo che fa del margine un osservatorio privilegiato per l’analisi di questioni che riguardano l’intero Paese.

Spopolamento e bellezza, accoglienza e parola

Le politiche di contrasto allo spopolamento delle aree interne possono diventare vincenti se sensibili ai luoghi e alle persone che li abitano, se strettamente connesse e ispirate alle peculiarità del territorio e all’identità culturale di chi ci vive. Dovrebbero alimentare, in chi non ha ancora abbandonato la propria terra e nei giovani che si sono assentati per studiare o che sono andati a lavorare altrove, la consapevolezza di quello che il territorio ha da dare. In modo da innescare “sguardi nuovi” su “antiche certezze”, attualizzare il presente senza dimenticare il passato, immaginare come essere protagonisti nel futuro. In tutto questo la “bellezza” e la “parola” sono due dimensioni fondamentali, innate e presenti, magari dormienti e pertanto riattivabili

Libere, non coraggiose. Per pianificare città più sicure per tutti i corpi

La paura del crimine è un problema più grave del crimine stesso», diceva Rachel Pain nel 2001. In particolare, la paura che donne e soggettività queer percepiscono negli spazi pubblici, soprattutto di sera e di notte, è un argomento di cui oggi più che mai è necessario occuparsi. Sebbene la percezione di insicurezza sembri essere più legata a narrazioni mediatiche che alla effettiva pericolosità delle città, è importante mettere a fuoco i fattori che concorrono a questa sensazione e, attraverso analisi di casi specifici, delineare una serie di pratiche utili a trasformare le nostre città e realizzare spazi pubblici più sicuri e accessibili per tutti.