13 Dicembre, 2024

Progettare città per essere (più) umani

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Il nostro comportamento è la risultante di tre fattori correlati: la nostra biografia, le relazioni con le altre persone, ed infine l’ambiente nel quale la vita si manifesta. La nostra personalità individuale è una complessa combinazione di quello che ricordiamo, ovvero dei processi che la memoria ha saldato. È l’insieme di tutto ciò che possiamo richiamare alla coscienza, ma anche di quello che non sappiamo di sapere, e che appartiene ad una dimensione implicita, inconscia e alla memoria del corpo biologico. Le relazioni con le altre persone, sin dalla nascita, influiscono con grande potere sulla qualità delle nostre esperienze, prima, e dei nostri ricordi, poi. Tutto questo è stato oggetto di numerosi studi e ricerche tra filosofia, psicologia, neuroscienze e letteratura. 

Un aspetto che non ha ancora acquisito il rilievo che merita è l’ambiente di vita. Da alcuni decenni, in realtà, molti studi hanno indagato come lo spazio agisca sulla personalità individuale e sulle relazioni sociali. Un settore disciplinare ‘rigorosamente indisciplinato’, come direbbe Tim Ingold, si è rafforzato portando alla nascita delle neuroscienze ambientali. Come funzionano i nostri corpi e la nostra psiche nei diversi ambienti? Come l’organizzazione e la forma dello spazio modifica i nostri ricordi e le relazioni umane? Se vogliamo assumere con piena responsabilità politica la tutela della salute fisica e mentale dei cittadini, non possiamo nascondere il fatto che individuo e società sono plasmate dai luoghi.   

Sul piano democratico, la consapevolezza di quanto la forma urbana e le sue politiche di gestione influiscano sulle emozioni basiche, le più primitive, come la paura ad esempio, dovrebbe spingerci ad assumere maggiore attenzione sul tema. Oggi, in una dimensione sociale sempre più disintermediata, dove i singoli vengono uniti e polarizzati, in opposizioni rigide, le emozioni evocate dallo spazio urbano sono ancor più importanti. I luoghi possono salvarci oppure condannarci ad un esilio da noi stessi. La differenza risiede nelle emozioni, o nelle memorie del corpo. 

Proprio per essere ancora in grande parte sedimentate nel genoma, è cruciale il ruolo che le emozioni corporee possono svolgere nel far riemergere una richiesta di realtà, di relazioni e di senso. A queste richieste la città fatica moltissimo a dare spazio e forma. Questa giovanissima creatura che è la città, rapidamente, in pochi millenni è diventata sempre più astratta rispetto alla vita umana. Se non comprendiamo questo aspetto iniziamo l’esplorazione ad occhi bendati. Ciò che sta accadendo non può essere compreso se non estendendo la storia umana e della città al cambiamento che segna l’inizio della dimensione artificiale dell’uomo, cioè la liberazione delle sue mani: l’Homo Erectus. Una visione della città rigorosamente indisciplinata richiede che antropologia e neuroscienze siano parte delle competenze di architetti e planner. La città occupa un frammento temporale di un’evoluzione durata un milione e mezzo d’anni, a spanne, nel corso del quale i luoghi entro cui i patterns fondamentali di interazione corpo-spazio sono stati raffinati, e poi tradotti nel nostro genoma, erano immersi nella natura. Piccoli nuclei ospitanti azioni elementari si sono poi aggregati a formare edifici. Con il passaggio dai villaggi neolitici alle città-stato sono state introdotte le prime manipolazioni delle emozioni stratificate nella natura. Una pianificazione unitaria a macro e micro scala si è fatta vedere sin dall’inizio della storia della città. Ippodamo da Mileto cinque secoli prima di Cristo, aveva già realizzato uno spazio saldo e unitario. La città rimane frattale tuttavia per lunghissimo tempo. Resta frattale perché sono prevalenti i piccoli nuclei – gli edifici – che ancora riescono ad ospitare la traduzione dei pattern corpo-spazio originati nella natura. Questa resistenza verrà – quasi – completamente annichilita con lo sviluppo delle grandi conurbazioni nate dalla Rivoluzione Industriale. In due secoli, da  allora, altri grandi cambiamenti hanno esaltato l’astrazione della forma degli edifici dal corpo umano, e dalle sue memorie. È una ferita aperta: il corpo ricorda quello che ha imparato in un milione e mezzo di anni, e cerca comunque casa. Ma non la trova, eccetto frammenti di luoghi ed apparizioni.

Nessuna illusione di ricostruire l’infranto deve accompagnare oggi la nostra ricerca dei processi in grado di tutelare la salute degli abitanti delle città.  L’esistente è un aggregato discontinuo. Le città hanno qualità molto diverse al proprio interno e dovremo fare uno sforzo per riconoscere qualità vecchie e qualità nuove, distinguendo anche tra quello che può sembrare solo un omogeneo e neutro tessuto moderno, o contemporaneo. 

È necessario inserire tra le linee guida del progetto urbano anche quelle riferite ai fattori che mitigano o esaltano i rischi per la salute psico-fisiologica dei cittadini. Il disegno della città può aumentare o diminuire i danni, infatti, ma non può fare il miracolo di cancellarli. 

La consapevolezza offerta dallo studio delle neuroscienze e della psicologia ambientale applicato allo studio della città è di grande aiuto per lavorare sulla riduzione del rischio di produrre danni severi, anche irreversibili, al cervello delle persone e alle relazioni sociali. Creare delle linee guida per mettere a sistema i fattori di protezione della mente è oggi possibile quanto necessario. 

Sono tre le aree d’intervento del masterplanning che ci vengono in aiuto: la dimensione estesa del planning, la cura dello spazio vuoto, ed infine la cura degli edifici. Le tre aree di intervento possono offrire un quadro esaustivo dei fattori di mitigazione del rischio per gli abitanti. Se calibrati con precisione questi fattori possono dare un ottimo contributo.

La tutela del benessere mentale non può prescindere dagli effetti neurologici e psicologici indotti dalla combinazione di quattro dimensioni proprie della pianificazione urbana: l’inclusione delle diversità, la presenza dei servizi ai cittadini, una rete per aumentare la sostenibilità sociale ed ambientale dei trasporti, e la presenza di diverse funzioni ed attività integrate nello spazio. La misurazione di questi fattori permette di avere la misura del livello della cura che la città offre a un quartiere. L’inclusione sociale, il senso di appartenenza, di sicurezza, l’impatto sulla salute fisica e cerebrale, la propensione sociale allo scambio, sono tutti prodotti di una buona integrazione di queste quattro dimensioni. 

La seconda famiglia di fattori di protezione si concentra sulla qualità dello spazio aperto. Grande rilievo assume, infatti, la capacità dei vuoti di radicare i diversi gruppi di cittadini, tenendo conto proprio delle diversità individuali (età, genere, sensoriali, motorie, mentali) e delle attività di ognuno. Una concezione dei vuoti come sistema di stanze aperte, delimitate con tratti invisibili permette di innescare una moltitudine di interazioni riferite alla memoria corporea. La gestione della presenza della vegetazione, e dell’acqua, si unisce a questo primo fattore. Due altri fattori concorrono a generare una nuova attenzione al disegno del suolo tra gli edifici. Si tratta delle soglie tra privato e pubblico e della cura della dimensione tattile, ovvero dei materiali da utilizzare per piazze, parchi, marciapiedi, piste ciclabili, carreggiate, portici, giardini. La cura integrata di questi cinque fattori incide sull’appartenenza al luogo, su aspetti neuro-biologici indotti dallo stress, sulla memoria e l’orientamento naturale, sulla dimensione pro-sociale, e sul senso di sicurezza.

La terza famiglia dei fattori protettivi deve essere definita con riferimento al disegno degli edifici. Il disegno urbano può definire alcune delle caratteristiche dei volumi che poi saranno sviluppati attraverso gli altri livelli della progettazione. E’ indispensabile che questi caratteri vengano già studiati a scala urbana per evitare di creare un collage insignificante in grado di privare gli abitanti di punti di riferimento essenziali nell’esperienza della città. Attraverso una traduzione innovativa della storia urbana locale, il piano può favorire il senso di radicamento e il bisogno innato di novità, può facilitare l’orientamento nello spazio e tutelare il funzionamento neurobiologico della memoria. 

Grazie alle ricerche sviluppate negli ultimi trent’anni, una solida letteratura scientifica connette i fattori protettivi citati alle quattro dimensioni del comportamento umano: neurobiologica, psicologica, sociale e fisica. Il masterplan non può più rinunciare ad utilizzare questo bagaglio conoscitivo nella rigenerazione e nello sviluppo urbano. Il ruolo della pianificazione e del progetto urbano devono tornare ad essere centrali nel dibattito economico, sociale e politico proprio perché la cura della salute fisica e mentale dei cittadini è l’asset più importante e strategico di un paese democratico, e che vuole rimanere tale. 

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