5 Novembre, 2024

L’autonomia regionale differenziata è una secessione dei ricchi

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Le richieste di autonomia regionale differenziata, così come formulate nel 2019 dalle regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna, se soddisfatte anche parzialmente sono in grado di modificare profondamente, in peggio, la realtà del nostro paese. Questo, per tre grandi ordini di motivi: perché a) configurerebbero la nascita di regioni-stato con amplissimi poteri a scapito dell’esecutivo nazionale e della possibilità di programmare e organizzare grandi politiche pubbliche; b) approfondirebbero il solco a danno dei territori più deboli nelle disponibilità economiche per la fornitura di essenziali servizi ai cittadini e alle imprese (e mortificherebbero il ruolo di Roma), accrescendo le disparità territoriali; c) spoglierebbero il legislativo di sue proprie potestà senza che esso possa aver modo di discuterne, trasferendole ad oscure commissioni, creando un vulnus alla democrazia italiana e rendendo assai più opachi i processi decisionali. 

In realtà esse configurano una secessione dei ricchi, come più articolatamente argomentato in G. Viesti, “Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale” (Laterza 2023). Elementi a favore di questa interpretazione sono stati forniti, nel corso del 2023, da istituzioni quali la Commissione Europea, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, il Servizio Bilancio del Senato e in modo particolare la Banca d’Italia, specie con la sua Memoria del 19/6/23, poi aggiornata da una successiva Memoria del 30/10/23. Vediamo i problemi.

In primo luogo, le tre regioni, come documentato da una attentissima analisi del costituzionalista Francesco Pallante hanno richiesto, con lievi differenze fra loro, poteri decisionali in tutte le politiche pubbliche. Le materie su cui viene richiesta l’acquisizione di funzioni infatti comprendono: a) scuola; b) università; c) ricerca; d) sanità; e) infrastrutture; f) assetto del territorio; g) ambiente; h) acqua; i) paesaggio; l) energia; m) beni culturali; n) lavoro; o) previdenza complementare; p) attività produttive: q) immigrazione; r) coordinamento della finanza locale. 

Si tratta di ben 500 funzioni potenzialmente delegabili, come specificato nel documento “Ricognizione della normativa e delle funzioni statali nelle materie di cui all’art. 116 terzo comma Cost.”, prodotto nel 2023 dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie, ma tenuto segreto e non disponibile per la consultazione, e circolato solo clandestinamente. Le richieste regionali non sono state mai motivate con proprie specificità. Non è stato mai argomentato perché la loro gestione regionale dovrebbe essere più efficiente e comunque preferibile rispetto a quella statale. Non è stato mai chiarita la motivazione della richiesta da parte della specifica regione di alcuna delle specifiche competenze, aprendo così la strada a richiesta a valanga da parte di altre regioni a statuto ordinario (come già avvenuto in particolare con Piemonte, Liguria e Toscana). A mostrare la pericolosa approssimazione di questo processo, questo tra l’altro significa che se a tutte le regioni a statuto ordinario fossero concesse competenze in una delle materie, si cambierebbe nella sostanza l’articolo 117 della Costituzione, in modo anticostituzionale, senza le procedure previste dall’articolo 138. Nessun documento illustra che cosa succederebbe alle funzioni statali residue e all’impatto che questa frammentazione delle competenze avrebbe sulle altre regioni. Le regioni richiedono competenze legislative e ampie competenze amministrative, di cui dovrebbero eventualmente essere titolari gli Enti Locali. 

L’enorme estensione delle richieste regionali produrrebbe grandi difficoltà nel disegnare e attuare politiche pubbliche nazionali e di contribuire a definizione e attuazione di politiche europee (a partire da energia, infrastrutture, ambiente); difficoltà per il sistema delle imprese a causa di diversificazione normativa e procedurale in molti ambiti; forte riduzione della capacità del governo nazionale e delle grandi enti/agenzie pubbliche (es. sicurezza nei trasporti), con competenze residuali per ritagli di materie e ritagli di territorio, diversi da caso a caso. Si tratta di richieste assurde, motivate esclusivamente da motivazioni di carattere politico: si tratta della concretizzazione dello storico principio leghista del “padroni in casa nostra”, che ha trovato – come hanno mostrato le decisioni della regione Emilia-Romagna – progressivamente consenso in vaste aree anche del centro-sinistra al Nord.

In secondo luogo, per i meccanismi di finanziamento è bene ricordare che le regioni non chiedono l’attuazione della legge 42/2009 (rimasta lettera morta) ma meccanismi finanziari speciali e “concordati” simili a quelli in vigore per le regioni a statuto speciale. In particolare, un meccanismo che consente loro di trattenere una percentuale prefissata del gettito fiscale. Meccanismo molto favorevole perché, se l’aliquota è costante e il gettito fiscale nella regione cresce più che nella media, si possono acquisire risorse addizionali; se cresce meno c’è la possibilità di ricevere dallo Stato quanto oggi viene speso. È comprensibile la preoccupazione dei rappresentanti dei territori del paese a minor reddito perché questo potrebbe determinare un ampliarsi degli scarti esistenti, già notevoli. Anche perché acquisire quante più risorse finanziarie possibili è da sempre un obiettivo chiaramente enunciato (anche se ora messo in sordina) delle Amministrazioni Regionali di Lombardia e Veneto: “teniamoci i soldi del Nord”. 

Si cerca di oscurare questo tema centrale con una discussione sui “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP); ma non c’è nessun legame tra LEP (117.2.m Cost.) e autonomia differenziata (116.3); il potere di fissarli è del Parlamento: solo il Parlamento può fissare livelli mediando esigenze differenti (le regioni più ricche hanno interesse a LEP più bassi; le più povere a LEP più alti); definire obiettivi di servizio e tempi per raggiungerli; stanziare risorse. Alla luce dei divari esistenti, raggiungere LEP omogenei fra regioni e comuni richiede un impegno politico chiaro, grandi risorse e molto tempo. Invece il DDL del governo prevede invarianza di bilancio. Il “fondo perequativo infrastrutturale” previsto dalla legge 42/09, ma mai entrato in vigore, rappresenta un prerequisito fondamentale per la devoluzione di ogni competenza verso le regioni: con la legge di bilancio per il 2024 è stato definanziato. Questo fa ben comprendere i veri indirizzi dell’attuale governo.

In terzo luogo, il DDL del governo stabilisce questo percorso: richieste regionali; negoziato governo-regione (nel 2019 fu completamente segreto) e approvazione in CdM di uno schema di Intesa preliminare. Poi parere della Conferenza unificata e un mero atto di indirizzo del Parlamento. Il Presidente del Consiglio valuta pareri e atti di indirizzo, a cui non è chiamato ad uniformarsi, e predispone lo schema definitivo dell’Intesa, cui fa seguito un voto di ratifica da parte delle Camere senza possibilità di discuterla e emendarla. Per le materie LEP bisogna attendere la loro mera determinazione (non il finanziamento). La legge di ratifica non può essere oggetto di referendum. Tutto il potere di definire il trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie va a Commissioni Paritetiche stato-regione che si esprimono tramite DPCM (sottratti al controllo di Parlamento e Corte Costituzionale). L’Intesa può essere rivista solo con il consenso della regione.  

Si tratta di un preoccupante salto nel buio; della prospettiva di un ritorno ad un’Italia di staterelli pre-unitari.

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