26 Ottobre, 2024

Caserme: una risorsa per la rigenerazione urbana?

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Questioni di caserme e città

Dagli anni ’80 in poi, la città italiana ha progressivamente scoperto i suoi vuoti, resi sempre più numerosi da un lato dell’innovazione tecnologica e della riconfigurazione (e rilocalizzazione) dei processi produttivi che hanno lasciato alla città aree sempre più estese e abbandonate, dall’altro dalla riorganizzazione dei grandi enti statali e la ridistribuzione di funzioni e servizi dello Stato all’interno di un patrimonio di per sé molto esteso e articolato anche se spesso degradato. Nel complesso, e senza differenza alcuna tra privato e pubblico, la città contemporanea è divenuta così una costellazione di spazi inutilizzati, che fossero aree industriali dismesse, alberghi e complessi commerciali, scali ferroviari o aree portuali risultate inutili, edifici pubblici di diverso tipo, tra cui scuole, istituti di vario tipo, ospedali o altre strutture sanitarie, macelli e fori boari, mercati e spazi logistici di diversa ampiezza, magazzini, a volte anche blocchi residenziali fortemente degradati. E quindi caserme.

Non è possibile assimilare tutte queste “risorse” in un’unica tipologia: cambiano i caratteri strutturali di questi beni, la loro collocazione nella struttura urbana, la loro adattabilità ad altri usi, il loro degrado edilizio, la fattibilità economica del loro recupero, la significatività urbanistica del processo di riutilizzo, la complessità delle procedure amministrative di intervento, l’appetibilità immobiliare e il grado di interesse degli operatori e quindi il relativo impegno nella riconversione e valorizzazione di questi beni.

Cambia, in breve, il valore di queste aree soprattutto come effettiva e concreta “risorsa pubblica”!

La questione non è banale, soprattutto quando – sulla spinta di una rinnovata attenzione ai processi di consumo di suolo naturale e agricolo – le aree dismesse sono tornate prepotentemente nel dibattito politico di molte città che ha riconosciuto proprio in queste aree un patrimonio utile a rimediare alle carenze della città, aree pregiate (perché in zone centrali o comunque in una periferia urbanizzata e spesso attrezzata), disponibili alla riorganizzazione urbana, al potenziamento infrastrutturale e quindi ambiti pregiati per dotare la città di quei servizi e di quelle funzioni che risultano necessarie ma difficili da realizzare soprattutto per mancanza di terreni disponibili (a prezzo contenuto, per l’erario comunale spesso in difficoltà).

Figura 1 – Spazi incolti e degrado del tessuto edificato all’interno dell’ex Piazza d’Armi di Piacenza. Fonte: repertorio di Federico Camerin

È un dibattito spesso superficiale che banalizza alcuni aspetti determinanti la questione. Innanzitutto le caratteristiche delle aree e dei beni che si sono resi disponibili alla collettività, dove sarebbe necessario distinguere (ed è solo una rozza tassonomia) tra caserme attrezzate in edifici storici preesistenti (spesso con vincoli monumentali sulle strutture originarie che sono sopravvissute agli interventi edilizi di adeguamento alle diverse funzioni a cui erano destinate e con diverso grado di alterazione/trasformazione dei corpi edilizi storici) e caserme costruite  in decenni più recenti, sorte con strutture pensate allo scopo (e con diverso grado di adattabilità ad altre funzioni, con necessità di demolizione piuttosto che di riconversione); o piuttosto altre tipologie di aree militari (destinate a specifici impianti e funzioni specifiche che ne hanno fortemente condizionato la struttura edilizia o l’occupazione dei suoli) il cui riuso è legato alle reali possibilità di sfruttare quelle aree se la loro localizzazione le rende strategiche alle funzioni urbane. Al contrario, sia le specificità dei contesti urbani, sia i processi di sviluppo delle città nonché la tipologia e le caratteristiche generale della struttura, necessitano una specifica e accurata valutazione per il loro recupero.

Non di meno viene sottovalutato il regime di proprietà o i processi di acquisizione di queste aree. Sia nei conti dei terreni militari, ma non diversamente da quanto accade per scali ferroviari o aree portuali ecc., si dà per scontato la “pubblicità” di queste aree e quindi il “passaggio” praticamente immediato nelle disponibilità delle amministrazioni. Non è questa la sede per affrontare la questione davvero complessa, sia per le diverse modalità di passaggio di “disponibilità” e/o “proprietà”, ma diversi casi hanno visto non di rado le difficoltà di queste procedure, ma ancor di più i tempi effettivi che richiedono, che devono accompagnarsi non di rado allo smantellamento delle strutture, alla bonifica e alla riconversione, che potrebbero incidere non marginalmente sulla convenienza del loro recupero ad altri usi.

Questioni di caserme, piani e progetti

Se osserviamo quanto accaduto nel corso dell’ultimo decennio nelle città italiane (va sottolineato che processi molto simili sono accaduti anche in altri paesi europei, dove la rigenerazione urbana contemporanea ha lavorato molto sui grandi edifici e aree militari dismessi) emerge un’altra e più importante questione sul recupero delle aree militari, ossia il loro inserimento in una visione complessiva della città che dia un senso (e spesso valuti accuratamente il valore strategico) del loro recupero.

Poche città italiane, sembrano aver elaborato una riflessione attenta sulla presenza di queste beni e aree e sulla loro riconversione ad usi collettivi, innanzitutto incrociando sinergicamente opportunità di recupero, destinazioni d’uso compatibili e strumentali all’incremento delle dotazioni urbane con piani finanziari credibili lasciandoli confluire  in scenari di sviluppo di medio-lungo periodo coerentemente impostati  all’interno di piani urbanistici condivisi e con convenuto  consenso dei diversi attori della trasformazione urbana.

In quasi tutti i casi si è trattato di “occasioni” che sono state discusse ogni volta che se ne è presentata l’opportunità (o per la disponibilità del Ministero della Difesa o del Demanio, o per la richiesta dell’Amministrazione o ancora per la manifestazione di interesse di un investitore), quasi sempre al di fuori di ogni previsione di piano e quindi con possibilità di trasformazione in deroga alle disposizioni di piani regolatori, con varianti urbanistiche spesso contestate. E non di rado, la destinazione d’uso per questi siti è stata decisa in base ad esigenze contingenti non senza forzature che hanno provocato se non contestazioni sicuramente diversi ripensamenti e intralci al processo di realizzazione, quando non ne hanno perfino determinato l’ulteriore abbandono, con il ritiro dei promotori del recupero o con ritardi eccessivi per la trasformazione.

Figura 2 – Immagine dello stato di degrado e obsolescenza della caserma Prandina di Padova. Fonte: repertorio di Federico Camerin

È pur vero che i tempi che viviamo impediscono la formulazione di previsioni e soprattutto di orizzonti certi per i processi di rigenerazione della città, ma è anche vero che l’assenza di un quadro di riferimento certo di obiettivi, l’individuazione corretta e documentata di bisogni della collettività, la formulazione di un progetto rigoroso in alcuni dei suoi presupposti rende i processi di riconversione del tutto aleatori. Questo fattore di incertezza, nel caso delle aree militari, è inammissibile. Infatti, l’opportunità del riuso delle caserme – perché risulti davvero una risorsa per la comunità – ha bisogno al contrario di visioni stabili e tempi certi, per rendere ammissibili i tempi e i costi di riconversione, che devono risultare fortemente finalizzati, per quanto le aree militari possano essere considerate beni (relativamente) “versatili” alla rigenerazione urbana.

Al contrario, in molti dei casi noti, il recupero delle caserme ha visto diverse incertezze nel dibattito politico, ma ancor più nella realizzazione delle nuove funzioni, incrementi dei costi, incertezze degli investitori e non di rado anche le proteste dei cittadini ai progetti, segno che al progetto di rigenerazione è sicuramente mancato condivisione ma soprattutto una corretta “narrazione” che facesse di quel bene e del suo riuso un valore collettivo riconosciuto.

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