Negli anni ’60 del secolo scorso, oltre il 90% dei consumi energetici europei era coperto da fonti fossili. Oggi, questa percentuale si assesta poco sotto il 70%. Negli ultimi 60 anni il peso del fossile è quindi diminuito di 25 punti percentuali. Nei prossimi 25 anni dovrà azzerarsi (Figura 1).
Bastano questi pochi numeri per capire perché la net carbon neutrality rappresenti una sfida epocale. Il target europeo implica una rivoluzione dei sistemi energetici: trasporti e riscaldamento dovranno essere alimentati da energia elettrica, e tutta l’elettricità dovrà essere generata da fonti rinnovabili. Ciò presuppone ingenti investimenti, da sostenersi in un contesto che in pochi decenni ha conosciuto profonde riforme. In passato, i mercati energetici si fondavano sul paradigma del monopolio pubblico integrato. Tale assetto organizzativo garantiva un sostanziale allineamento tra gli investimenti delle imprese pubbliche e la volontà politica dei governi che le controllavano.
Oggigiorno, nei mercati energetici liberalizzati, le decisioni di investimento – quando, quanto, dove e in che tecnologia investire – sono ampiamente delegate a imprese quotate in borsa, i cui obiettivi economici non sono necessariamente allineati alle priorità socio-politiche dei vertici europei. Favorire questo allineamento rappresenta forse la sfida più critica della transizione energetica.
In passato, generosi sussidi pubblici hanno sopperito allo scarso interesse del mercato verso le rinnovabili. In Italia, il Conto Energia favorì una crescita esponenziale del fotovoltaico: da quota 0 nel 2007 a quasi 20 GW nel 2012.
Oggigiorno, il ricorso ai sussidi pubblici sembra meno urgente. Significative economie di scala e curve di apprendimento tecnologico hanno favorito una drastica riduzione dei costi delle rinnovabili. Se appena quindici anni fa, produrre elettricità utilizzando fotovoltaico costava mediamente 4 volte in più rispetto l’utilizzo dei cicli combinati a gas, in appena un decennio questo costo si è ridotto di quasi il 90% e, da qualche anno, il fotovoltaico risulta più conveniente rispetto all’alternativa fossile (fonte: Lazard LCOE analysis).
Ciononostante, il disallineamento tra gli obiettivi politici e gli investimenti privati rimane significativo. In Italia, per rispettare gli obiettivi definiti nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), da oggi al 2030 si dovranno installare oltre 55 GW di nuova potenza fotovoltaica: quasi 8 GW all’anno per 7 anni. Al contrario, nel periodo 2014-2020, a conclusione dei sussidi pubblici, si sono mediamente investiti 0,4 GW all’anno. In altre parole, gli investimenti annui nel periodo 2024-2030 dovranno essere quasi 20 volte superiori a quelli osservati nel periodo 2014-2020 (Figura 2).
Perché allora, sebbene sulla carta le rinnovabili rappresentano l’alternativa economicamente più conveniente, i relativi investimenti risultano sensibilmente sottodimensionati? Possiamo individuare almeno tre criticità.
Primo, una scarsa compatibilità delle rinnovabili con il meccanismo di formazione dei prezzi nella borsa elettrica (system marginal price). Avendo costi marginali tendenzialmente nulli, le rinnovabili offrono prezzi molto bassi, spiazzando le tecnologie marginali più costose e causando una riduzione dei prezzi elettrici (merit-order effect). In svariate ore dei mesi primaverili del 2024, in diverse borse elettriche europee, dalla Spagna alla Scandinavia, le rinnovabili hanno interamente coperto la domanda elettrica, causando un azzeramento dei prezzi di borsa. Una buona notizia per i consumatori, meno per gli investitori: al crescere della penetrazione fotovoltaica, i prezzi elettrici diminuiscono, causando una riduzione dei ritorni economici delle rinnovabili stesse: un “effetto cannibalizzazione” che disincentiva ulteriori investimenti (Clò et al. 2015). Per superare questa impasse è necessario disaccoppiare le rinnovabili dai meccanismi di borsa, legandone la remunerazione a schemi contrattuali di lungo periodo capaci di garantire una adeguata copertura dei costi fissi di investimento (power purchasing agreement o contracts for difference).
Un secondo problema allo sviluppo delle rinnovabili è il basso consenso sociale da parte delle comunità locali. Molti studiosi ritengono che i benefici economici e sociali legati alle rinnovabili superino i relativi costi. Tuttavia, costi e benefici presentano una diversa distribuzione territoriale. I benefici (minore dipendenza energetica, riduzione delle emissioni e dei prezzi al consumo) hanno una dimensione nazionale o internazionale, i costi (impatto visivo e paesaggistico, sottrazione di terreni agricoli e consumo di suolo) ricadono sulle comunità locali. Come ci insegna la recente opposizione sarda ai nuovi parchi eolici, le infrastrutture rinnovabili – in particolare quelle di grandi dimensioni – sono percepite come progetti estrattivi, che sottraggono risorse al territorio e non garantiscono un giusto ritorno alle comunità locali. Il recente sostegno alle comunità energetiche rinnovabili (CER) può favorire un maggiore consenso locale. Le CER garantiscono che parte dei benefici economici e sociali legati alle rinnovabili ricadano sulle comunità locali che le partecipano. Inoltre, le CER si fondono su un modello di generazione distribuita di impianti di piccola taglia che, seppur caratterizzati da minori rendimenti, hanno il pregio di contenerne l’impatto paesaggistico.
Infine, la lunghezza dell’iter autorizzativo viene indicato dagli investitori come il principale ostacolo allo sviluppo delle rinnovabili. La normativa nazionale prevede per gli impianti di piccola taglia (<20 KW) una procedura autorizzativa semplificata (PAS), equivalente ad una Comunicazione di Inizio Lavori (CILA) da depositare presso gli uffici comunali, mentre per gli impianti più grandi è richiesta un Autorizzazione Unica (AU) la cui complessità procedurale è acuita dalla sostanziale difformità dell’ iter e delle competenze tra le regioni italiane. Elemento che aggiunge incertezza ai già elevati tempi e costi procedurali. Secondo recenti stime, il tempo medio per ottenere l’autorizzazione per un impianto eolico in Italia è di 43 mesi; 22 mesi per un impianto fotovoltaico. Solo l’8% dei progetti eolici e il 16% dei progetti fotovoltaici presentati ottengono l’autorizzazione (Osservatorio Regions 2030).
In passato, alcune regioni hanno semplificato l’iter autorizzativo, estendendo la PAS ad impianti fino a 1 MW. In un recente studio, Daniele et al. (2023) hanno stimato che tale semplificazione abbia mediamente favorito un incremento addizionale della potenza installata del 29% nelle regioni adottanti rispetto alle regioni limitrofe che non hanno semplificato.
L’European Solar Energy Strategy si prefigge di ridurre la lunghezza e complessità dell’iter autorizzativo delle tecnologie rinnovabili, alle quali si riconosce un interesse pubblico prevalente. La definizione delle aree idonee e di quelle non idonee all’installazione di rinnovabili è stata indicata dalla Commissione come un fattore importante per accrescere la certezza legislativa e ridurre i tempi di approvazione. Finalità che non sembra essere stata pienamente centrata dal recente Decreto Aree Idonee, il quale delega alle Regioni il compito di definire le aree idonee. Fattore che aggiunge discrezionalità e frammentazione ad un quadro legislativo già fortemente disomogeneo.
Ulteriori approfondimenti
- Clò S., G D’Adamo (2015) The dark side of the sun: How solar power production affects the market value of solar and gas sources, Energy Economics 49, 523-530
- Daniele F., A Pasquini, S Clò, E Maltese (2023), Unburdening regulation: The impact of regulatory simplification on photovoltaic adoption in Italy, Energy Economics 125, 106844