27 Luglio, 2024

Autonomia rafforzata: motivazioni reali e improbabili benefici

Tempo di lettura: 6 minuti

Il conseguimento di guadagni di efficienza dovrebbe essere un esito immancabile o almeno una finalità essenziale di un corretto e opportuno processo di decentramento amministrativo e fiscale. La teoria economica del federalismo ha da tempo ben chiarito questo punto, con due generazioni di modelli che hanno evidenziato da una parte i benefici di un’autorità locale più consapevole delle preferenze delle comunità, e in grado quindi di fornire beni pubblici locali nelle tipologie e quantità più adatte a soddisfare quelle specifiche preferenze, e dall’altra i vantaggi di una maggiore prossimità tra governanti e governati, a garanzia di trasparenza (accountability) e quindi migliore gestione della cosa pubblica.

Tuttavia, la stessa teoria ha anche evidenziato che gli esiti del decentramento possono essere meno favorevoli (Bartolini et al., 2023). Ciò in primo luogo perché i guadagni di efficienza sopra richiamati si manifestano solo in presenza di preferenze locali relativamente omogenee all’interno della regione e relativamente eterogenee tra le diverse regioni, e in secondo luogo perché, a fronte dei possibili benefici, vanno considerati anche gli eventuali costi del decentramento, connessi ad esempio alla presenza di economie di scala nella fornitura di beni e servizi, alla diffusione di esternalità negative per altre giurisdizioni, alla possibilità che i governi locali siano meno indipendenti da soggetti economici forti e più facilmente da questi “catturati”, all’allargamento delle disuguaglianze regionali, alla riduzione della capacità perequativa del governo centrale.

A fronte di un quadro teorico così articolato, il dibattito pubblico italiano sul tema della “autonomia rafforzata” è stato e continua ad essere piuttosto povero. Così, le richieste avanzate da diverse regioni per l’ottenimento di ulteriori e differenziate forme di autonomia, a partire dai referendum regionali del 2017 in Veneto e Lombardia, piuttosto che fondarsi su analisi accurate e idonee a motivare teoricamente ed empiricamente la preferibilità della devoluzione a livello regionale di singole, specifiche materie, sono state improntate ad un’interpretazione assai estensiva dell’art. 116 comma 3 della Costituzione, che ha finito con il coinvolgere tutte (o quasi) le 23 materie citate nel testo costituzionale, sulla base, al più, di qualche vago riferimento alle “specificità proprie della regione”. Tale erronea impostazione, in palese contrasto con i principi del federalismo (Zanardi, 2023), non sembra essere stata corretta nelle varie bozze di intesa o legge-quadro che si sono succedute dal 2018, e neanche nel DDL Calderoli recentemente approvato dal Senato.

Le reali motivazioni di un approccio così estremo e potenzialmente dirompente per l’unità nazionale (Banca d’Italia, 2023; Viesti, 2023) apparivano chiare già dalla documentazione regionale di accompagnamento alle proposte del 2017. All’epoca, gli obiettivi fondamentali dell’autonomia rafforzata erano: a) l’attribuzione di maggiori poteri all’autorità regionale per rafforzare ruolo ed influenza dei politici e degli alti burocrati locali; b) il conseguimento da parte delle regioni ad autonomia rafforzata della disponibilità di una più ampia quota del gettito tributario riscosso nel territorio regionale, sul modello delle regioni a statuto speciale. Oggi, il primo obiettivo rimane inalterato, il secondo solo in parte ridimensionato.

L’attribuzione di maggiori poteri alle regioni è spesso giustificata dall’argomento della presunta maggiore efficienza delle amministrazioni regionali (del Nord) che, nella vulgata di molti sostenitori dell’autonomia rafforzata, spenderebbero meno a parità di risultato o fornirebbero migliori servizi a parità di spesa rispetto all’amministrazione centrale o ad altre amministrazioni regionali (del Sud). Stando così le cose, l’autonomia rafforzata al Nord condurrebbe a miglioramenti di efficienza direttamente e anche indirettamente, grazie all’incentivo a replicare le buone pratiche delle migliori amministrazioni e alla spinta ad introdurre meccanismi di maggiore responsabilizzazione, trasparenza e partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica nelle regioni (del Sud) meno efficienti. L’evidenza tuttavia non conferma questa affermazione: appare in particolare priva di fondamento l’ipotesi che le regioni del Mezzogiorno spendano di più per fornire peggiori servizi. La tabella riporta i dati relativi alla spesa primaria (cioè, al netto degli interessi sul debito) pro-capite regionalizzabile effettuata nell’anno 2021 dalle amministrazioni pubbliche nei diversi territori regionali. La prima colonna si riferisce al dato desumibile da fonte Ragioneria Generale dello Stato (RGS), mentre i dati delle altre due colonne derivano da elaborazioni compiute a partire dalle informazioni del Sistema Conti Pubblici Territoriali (CPT) dell’Agenzia per la Coesione Territoriale. La seconda colonna mostra la spesa pro-capite delle pubbliche amministrazioni (PA) e la terza colonna la spesa pro-capite riferita all’intero Settore Pubblico Allargato (SPA). Le differenze fra i dati riportati nelle prime due colonne si devono soprattutto alla diversa quota di spesa regionalizzata, minore nella rilevazione RGS rispetto a quella CPT. In tutti i casi, appare comunque con chiarezza che destinatarie della maggiore spesa pro-capite non sono le regioni meridionali ma quelle a statuto speciale (tranne la Sicilia) e di minori dimensioni. Considerando una quota di spesa regionalizzata più ampia e includendo nel computo anche gli enti del SPA (ultima colonna), si evidenzia che le ultime cinque posizioni nella graduatoria regionale della spesa pubblica per abitante sono tutte occupate da regioni del Mezzogiorno (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Abruzzo). 

Per quanto riguarda le risorse finanziarie (il secondo vero obiettivo dell’autonomia rafforzata), la pretesa di ottenere una maggior quota del gettito tributario riscosso nel territorio regionale (con la riduzione dell’ingiusto residuo fiscale), è stata ridimensionata solo parzialmente grazie al vincolo dei LEP e dei fabbisogni standard, da determinare necessariamente prima del trasferimento delle funzioni, nonché dalla istituzione della Commissione paritetica, alla quale nell’ultima versione del DDL (art. 8) è stato affidato il compito di provvedere “alla ricognizione dell’allineamento tra fabbisogni di spesa (…) e andamento del gettito”. Pur evitando i peggiori effetti legati alla divaricazione fra crescita del gettito e costi dei servizi, dalla quale i promotori dell’autonomia rafforzata speravano di ottenere un surplus da trattenere nelle regioni più ricche e dinamiche, i rischi per il finanziamento delle funzioni pubbliche nelle regioni del Mezzogiorno e per la finanza pubblica complessiva rimangono alti, soprattutto in considerazione del fatto che alcune funzioni da trasferire non sono soggette ai vincoli LEP (art. 4, comma 2) e della complessità delle procedure di monitoraggio e controllo previste dall’art. 8.

In definitiva, i possibili benefici netti derivabili dall’autonomia rafforzata sembrano molto improbabili, mentre le motivazioni reali del progetto hanno a che fare poco con l’efficienza della gestione della cosa pubblica e molto con la volontà di assegnare ad amministratori e burocrati regionali più poteri e più risorse. Il prezzo da pagare per assecondare questo progetto potrebbe essere molto alto: attribuzione alle regioni della gestione di beni pubblici nazionali o globali, caratterizzati da grandi esternalità che richiedono un ambito decisionale ben più ampio; diversificazione delle strutture amministrative e delle normative regionali, con complicazioni e distorsioni nelle scelte di cittadini e imprese; indebolimento della credibilità del paese in sede internazionale, per la maggiore eterogeneità dei contesti regolatori e dell’attività di programmazione; aggravamento dei conti pubblici nazionali e regionali; approfondimento dei già ampi divari socio-economici interregionali.

Ulteriori approfondimenti

Banca d’Italia (2023). Memoria della Banca d’Italia. Disegno di legge AS 615. I Commissione del Senato, 19 giugno.

Bartolini D., Sacchi A., Scalera D., Zazzaro A. (2023). Voters’ distance, information bias and politicians’ salary. Italian Economic Journal, 9, 637-664.

Viesti G. (2023). Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale. Editori Laterza.

Zanardi A. (2023). Se l’autonomia contraddice i principi del federalismo, laVoce.info, 13 aprile.  

Tabella. Spesa pubblica primaria per abitante (Euro) 2021 
 RGSPA CPTSPA CPT
Piemonte11.89915.94718.471
Val d’Aosta18.39621.42429.347
Lombardia10.94615.68620.294
Liguria13.34818.04020.709
Trento17.10619.33125.202
Bolzano22.94928.808
Veneto10.78714.53017.260
Friuli Venezia Giulia14.46418.18120.940
Emilia Romagna11.64916.09419.667
Toscana11.72015.43818.344
Umbria12.11715.34717.665
Marche11.52515.01317.547
Lazio15.44719.16024.995
Abruzzo12.08514.80017.170
Molise12.43214.39617.490
Campania10.46312.17814.203
Puglia10.82913.28315.908
Basilicata12.08213.80718.135
Calabria11.75013.01815.596
Sicilia11.28613.58016.166
Sardegna13.70616.00119.022
Nord Ovest11.48916.02619.914
Nord Est12.08616.12119.469
Centro13.53917.18921.431
Mezzogiorno11.00712.97615.399
Isole11.88414.17916.873
Italia11.94615.37718.766

Articoli correlati

Ancora sull’autonomia differenziata. La nuova normativa e la legge 42/2009 di attuazione del federalismo fiscale.

Il nuovo numero di DiTe riapre il dibattito sull'autonomia differenziata, dopo l'approvazione del disegno di legge 615. DiTe aveva già affrontato il tema nel numero del 5 marzo, ma ritorna sulla questione per evidenziare l'importanza del progetto riformatore e i suoi effetti potenziali. Il confronto tra la legge Calderoli del 2009 e la nuova normativa mostra tre punti chiave trascurati: autonomia tributaria, superamento della spesa storica e capacità fiscale regionale. La nuova legge, basata sulla compartecipazione ai tributi, è criticata per la mancanza di coerenza e per ignorare la necessità di perequazione e rafforzamento dell'autonomia tributaria.

Il regionalismo conflittuale del secolo scorso di fronte alle nuove sfide

Il regionalismo conflittuale del secolo scorso si trova oggi di fronte a sfide globali e tecnologiche che ne evidenziano l’inadeguatezza. Le previsioni degli anni '90 sulla fine degli stati nazionali e sull'emergere di un'Europa delle Regioni si sono rivelate illusorie, incapaci di rispondere alle nuove dinamiche imposte dalla globalizzazione, dal reshoring delle imprese e dalla crescente interconnessione tecnologica. Oggi, la riforma del titolo V della Costituzione e la spinta autonomistica mostrano i limiti di una politica incapace di adattarsi a tali cambiamenti, aumentando la confusione nei rapporti fra lo Stato e le Regioni e intensificando i conflitti tra forze politiche e territori.

L’autonomia regionale differenziata è una secessione dei ricchi

L’autonomia differenziata configura una autentica “secessione dei ricchi” perché amplifica enormemente i poteri delle Regioni, pregiudicando disegno e attuazione delle politiche pubbliche nazionali e ampliando le disuguaglianze territoriali. Il trasferimento delle risorse alle Regioni è definito da commissioni stato-regione privando il Parlamento delle proprie potestà.

Storia e Cronistoria del DdL Calderoli

Il disegno di legge Calderoli all’esame del Parlamento stabilisce, tra l’altro, che l’attuazione dell’autonomia per tutte le funzioni che prevedono il rispetto dei LEP non possono essere oggetto di intesa se non dopo la loro definizione e ciò, di fatto, “costituzionalizza” gli squilibri distributivi nella ripartizione della spesa tra le regioni, penalizzando in particolare quelle meridionali.

L’equivoco dei residui fiscali tra spesa storica e suggestioni autonomistiche

I residui fiscali, lungi dall’essere “impropri e parassitari” non sono altro che la conseguenza della necessità di garantire l’attuazione del principio di equità: dai dati si evince che tale principio, complice il meccanismo del criterio della spesa storica, è lungi dall’essere rispettato.