Il recente volume di Bertram Niessen propone uno sguardo straordinariamente approfondito sulla realtà della città contemporanea, stretta nelle morse parallele della finanziarizzazione, della gentrificazione e della turistificazione, e ciononostante ancora capace – a livello molecolare, per dirla con Deleuze e Guattari – di produrre e riprodurre nuove spazialità e pratiche collettive di dissenso, divergenti rispetto a quelle codificate dall’alleanza tra potere politico ed economico-finanziario.
In tal senso, tutta l’argomentazione del libro sembra essere attraversata da quella doppia polarità che l’antropologo catalano Manuel Delgado (2004) ha stabilito tra città concepita e città praticata. La città concepita, evidentemente, non è solo quella che emerge dal disegno di architetti e urbanisti ma anche quella costruita dal city branding, che si sforza di articolare narrative il più possibile convincenti per aumentare la riconoscibilità e soprattutto l’appetibilità della città-merce sul mercato globale. La città praticata è invece quella dei movimenti dal basso, della cultura di prossimità, delle intelligenze collettive che riformulano costantemente rituali, modi di vita, pratiche comunitarie.
Nella prima parte del testo, la città degli specchi, Niessen si concentra sugli effetti dell’economia postfordista sulla città contemporanea: con la delocalizzazione della produzione di merci viene in altri territori e geografie lo spazio urbano diventa più sempre più lo spazio dei servizi, del consumo, di flussi globalizzati di capitale finanziario. La città stessa è chiamata inoltre a ripensare un ruolo per quegli spazi in disuso che costituiscono il lascito tangibile del sistema produttivo fordista: la produzione di nuovo valore passa proprio dalla riconversione dei vuoti industriali in spazi “contenitori” per attività legate alla conoscenza o alla creatività nelle loro diverse declinazioni. Gli spazi delle vecchie fabbriche sono vuoti da riempire di senso, e ciò non di rado avviene grazie a un sapiente utilizzo di metafore: si pensi al caso esemplare di Milano Bicocca, convertita da fabbrica di pneumatici a “fabbrica” di conoscenza.
Metafore, immaginari, narrative accuratamente costruite da amministrazioni pubbliche e stakeholders privati costituiscono i nuovi assets intangibili della città contemporanea, costretta a produrre valore simbolico ed estetico senza sosta per non perdere terreno rispetto ad altre città-merce. Edifici altamente estetizzati a firma di archistar, eventi e manifestazioni di portata internazionale come expo, fiere, olimpiadi: tutte operazioni di cosmesi dell’urbano coerenti con la logica di quello che Lipovetsky e Serroy (2017) hanno definito “capitalismo artistico”.
La questione, però, va al di là di queste operazioni cosmetiche a grande scala. La tesi dell’autore è che anche la creatività diffusa, quella che emerge dal basso come vero e proprio “bene comune” immateriale della città – le estetiche e gli stili di vita dei quartieri di creativi e knowledge workers – finisce per essere estratta da aziende che la integrano nella narrazione del loro marchio. Facendo riferimento a David Harvey, Niessen parla di vere e proprie enclosures di beni comuni: come i latifondisti inglesi si appropriavano delle terre della comunità semplicemente recintandole, il mondo privato si appropria oggi di quei commons “legati al sapere, al gusto, al capitale estetico e relazionale prodotto (…) da una moltitudine di lavoratori creativi, della cultura e della conoscenza” (p. 95), trasformandoli in strumenti per il profitto economico. E come la produzione di merci, anche la nuova produzione immateriale ha i suoi effetti collaterali: speculazione immobiliare, gentrificazione, turistificazione, airbnbfication.
Condivisibili sono anche le riflessioni della seconda parte, la città delle crepe, incentrate soprattutto sulle dinamiche associate all’emergenza da Covid-19 sin dal suo inizio, nel marzo 2020. Il virus ha agito in vari modi sulle città: se alcune di queste dinamiche sono state sue conseguenze dirette – le strade e le piazze deserte, i nuovi rituali collettivi imposti dal distanziamento sociale – altre erano invece già in atto e la pandemia non ha fatto altro che evidenziarle. A tale riguardo suona particolarmente ironico il celebre slogan del sindaco Sala, “Milano non si ferma”: a non fermarsi in quei mesi terribili sono stati anche i riders, nuovi lavoratori essenziali legati all’esplosione dell’e-commerce e del delivery, sfruttati, sottopagati ed esposti al contagio.
C’è dell’altro. L’emergenza pandemica è stata il momento in cui la città tracciata su carta da progettisti e amministrazioni si è percepita con maggiore chiarezza, proprio perché era scomparsa in quei giorni la città “sensibile”: i corpi che la attraversavano. Lo spazio urbano disabitato, “ripulito” dal caos vitale del quotidiano sembrava la traduzione materiale ed estetica, tanto perfetta quanto inquietante, dell’idea di ordine sociale e politico: quello che ci troveremmo di fronte nelle capitali dei regimi totalitari contemporanei, per intenderci.
Eppure lo spazio – come afferma Delgado, e come avrebbe detto Lefebvre prima di lui – non potrà mai essere davvero “pubblico” se non c’è nessuno a produrlo quotidianamente, in maniera non normativa, imprevedibile, spesso addirittura conflittuale.
Ed è proprio questa capacità “divergente” della cultura urbana uno dei temi centrali de la città dei vortici, terza e ultima parte del bel libro di Niessen. Alle narrative di cui si è detto in precedenza, che tendono a codificare un’immagine il più possibile uniforme della città appiattendone le differenze, si oppongono quelle pratiche urbane in cui la cultura nella sua dimensione “diffusa” si rivela una potente forza generatrice di apertura al nuovo e di de-coincidenza, per dirla con François Jullien. Spazi (e tempi) circoscritti, vere e proprie enclaves di resistenza in cui si sperimentano altri modi di fare comunità, e in cui – per usare i termini di un altro filosofo francese, Jacques Rancière – la logica politica del dissenso si oppone a quella della polizia, dell’ordine e del decoro imposti dall’alto (Rancière, 2007).
Il volume si chiude con un paragrafo dedicato alle “alleanze non umane”, questione che ha acquisito grande rilevanza nel dibattito contemporaneo sotto la spinta del nuovo pensiero ecologico, ecofemminista e postumano. Quella di Niessen è un’idea di comunità “allargata” anche in senso post-antropocentrico, e anche le città – normalmente pensate per la presenza esclusiva (ed escludente) degli umani – dovrebbero assumere come nuovo principio la collaborazione simbiotica tra entità eterogenee, viventi e non viventi. “Negli anni del riscaldamento globale dovremmo trovare nuovi immaginari, politiche e rituali per collaborare – dentro e fuori le città – con le acque, i paesaggi, le piante, il suolo e gli animali” (p 274). La crisi climatica attuale ci impone di pensare oltre l’umano e ciò non può che riguardare tutti i nostri spazi di vita. È indubbiamente necessario; e se penso a come gran parte della teoria e del progetto architettonico e urbano rimanga ancor’oggi intrappolata nelle secche dell’antropocentrismo, concordo con l’autore: sarebbe anche divertente.
Ulteriori approfondimenti
- Niessen B. (2023), Abitare il vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo. Milano: Utet.
- Delgado M. (2004), De la ciudad concebida a la ciudad practicada. Archipiélago: Cuadernos de crítica de la cultura, 62: 7-12.
- Lipovetsky G., Serroy J. (2017), L’estetizzazione del mondo. Vivere nell’era del capitalismo artistico. Palermo: Sellerio Editore.
- Rancière J. (2007), Il disaccordo. Milano: Meltemi Editore.